Days
A sette anni dal capolavoro "Stray Dogs", Tsai Ming-liang torna al cinema di pura finzione e firma un nuovo film straordinario.
«Questo film è volutamente senza sottotitoli». Poche inquadrature, camera fissa, piani sequenza. A sette anni da Stray Dogs Tsai Ming-liang torna alla finzione pura con Days (Rizi), in concorso alla Berlinale 2020. Una storia semplice: l’incontro erotico tra due uomini. Il più ricco Kang (Lee Kang-sheng, attore prediletto e amico del regista) e il giovane povero Non (Anong Houngheuangsy), che si prostituisce in stanze d'albergo. Un “breve incontro” a cui prelude e segue la quotidianità dei due: l'uno vive in una grande casa con un'ampia vetrata da cui vede la città, l'altro in un piccolo appartamento a Bangkok dove cucina cibo tradizionale. Tutto qui.
Alla base c'è probabilmente un dato autobiografico: lo stesso Tsai, nel precedente Afternoon, conversando proprio con Lee Kang-sheng raccontava i suoi incontri sessuali con uomini. Che qui rimette in scena. Nel corso del tempo il suo cinema si asciuga sempre di più, si fa maggiormente essenziale e francescano: da una parte in Days scorrono temi di tutta la sua filmografia, basti pensare alla figura omosessuale in cerca di incontri di Vive l'amour, o al malessere de Il fiume che qui si ritrova nelle sedute di terapia di Kang, oppure ancora alla tradizione dei vegetali di Stray Dogs. Ma il suo cinema è ormai evoluto, cambiato. È diventato senza parole: non c'è più bisogno del dialogo per costruire una storia, qui il verbo è ridotto al minimo (e perlopiù convenevoli), il gesto cinematografico rinuncia all'orpello del parlato.
Nella prima parte i due uomini sono ripresi in montaggio alternato - seppure congelato - nel loro quotidiano. Come sempre, il sublime piano fisso di Tsai è un invito a prendersi il tempo opportuno per guardare: l’occhio scruta dentro l'inquadratura, è chiamato a sostenerla, gradualmente vi entra per farne parte, in una delle forme più rare di partecipazione all'esperienza cinematografica. Poi Kang e Non si incontrano. I percorsi paralleli si incrociano. Qui il regista inscena la lunga sequenza del massaggio, una ripresa potenzialmente infinita che si colloca tra i vertici del suo cinema: Non esegue il massaggio su Kang, lo tocca, le sue mani che scorrono sul corpo sono un elemento sessuale, ma anche una forma suprema di cura dell'altro. Anche per questo, nel compiersi della scena, lentamente si esce dal rapporto tra cliente e prostituto e c'è il rischio che si affacci il sentimento. Nel film, e in particolare in quel massaggio, c'è tutta la pulsione scopica insita nella natura stessa del cinema, ma c'è anche dell'altro: Tsai inquadra il corpo in modo erotico, ma anche ascetico. Coniuga voyeurismo e buddismo, perché nei nudi che si toccano fino all'orgasmo di Kang c'è perfino qualcosa di sacro.
L'atto decisivo arriva però alla fine del massaggio: Kang regala a Non un carillon che riproduce il motivo di Luci della ribalta di Charlie Chaplin. Lo stesso che chiudeva I don't want to sleep alone, un altro film sulla cura del prossimo. Dopo l'incontro i due uomini tornano alle loro vite. Ma non propriamente, non esattamente: Kang si risveglia nell'inquadratura fissa del suo volto che attesta il formarsi delle lacrime. Non per strada ascolta ancora il carillon, ma il suono viene coperto dai rumori delle macchine. La città copre le luci. Kang e Non tornano ad essere due solitudini, ma forse qualcosa è rimasto. Tsai Ming-Liang: ancora oggi uno dei migliori cinema possibili.