The Wind
Sulla scia del nuovo modello horror tracciato da "The WItch", Emma Tammi esordisce con una rilettura western affascinante ma non del tutto riuscita.
Che The Witch fosse destinato a diventare un ulteriore punto di ancoraggio per una potenziale nuova leva di registi che si sarebbero confrontati con l’horror lo si poteva intuire facilmente. Il primo lungometraggio di Dave Eggers contiene tutti quegli elementi (i ritmi dilatati, la fotografia plumbea, la recitazione compassata, la rinuncia al jump scare) tipici dell’horror d’autore ma che trovano nuova linfa nella ricostruzione certosina di un preciso contesto storico-geografico (la campagna inglese del XVII secolo), con le sue tradizioni, la sua lingua e il suo accento, la fisicità dei suoi abitanti. Un contesto ritratto attraverso lo small world di una famiglia del New England allontanata dalla comunità religiosa per l’eccessiva rigidità mostrata dal capo famiglia nell’interpretazione della dottrina. In The Witch, attraverso i cinque membri che costituiscono il nucleo famigliare, non veniva rappresentato il solo sgretolarsi dei rapporti tra i personaggi sotto la paura dell’altro, il timore del demonio e della punizione divina, ma si ricostruivano le paure di una comunità intera. I drammi, le credenze, le superstizioni di un’epoca venivano filtrate dal film di genere.
Vista la risonanza e l’impatto (seppur con qualche anno di ritardo) avuto dal film anche in Europa, non sorprende che per questa sua opera prima Emma Tammi provi a inserirsi nella scia di The Witch recuperando – tra le altre sue caratteristiche distintive – quel fuoco sulla figura femminile inserita in un mondo (l’Inghilterra protestante nel cult di Eggers, il Far West per The Wind) fallocentrico e sospettoso nei confronti delle donne, figure fantasmatiche e intermittenti, passive dietro a uomini-mariti-padri che ne decidono le sorti e con i quali sono destinate a entrare in rapporto oppositivo.
È sempre stato così nel cinema western, il cinema “maschile” per eccellenza ma che vede nella conquista della donna un fattore nobilitante (Per un pugno di dollari), un oggetto di contesa (Sentieri selvaggi), un casus belli (Johnny Guitar). Anche in The Wind il motore della storia è l’avvento di una donna, un doppelgänger che più che scatenare reazioni negli uomini conduce Lizzy a un progressivo stato d’ansia e follia minimizzato dal marito, un tormento ben simboleggiato dal vento che dà il titolo al film, primo suono diegetico e rumore bianco che accompagna la protagonista dalla prima all’ultima scena, dando corpo a fantasmi e apparizioni di diversa natura, a volte animali, a volte maschili, che provano a penetrare nella casa, il suo orizzonte accartocciato nel mezzo di una radura che, come il marito, isola la donna dal mondo esterno, lasciandola sola e possibile preda di tutte le deformità che la pianura cova in seno.
The Wind fallisce però proprio dove The Witch trovava il suo massimo compimento: l’inserimento dell’allucinazione e dell’elemento orrorifico in uno scenario iperrealistico. L’horror di Eggers funzionava alla perfezione grazie all’attenzione maniacale del regista ai particolari: dalle scelte di casting e la ricostruzione linguistica al timbro degli attori – quello baritonale di Ralph Ineson in particolare – oltre al perfetto equilibrio tra reale e fantastico, dramma e incubo. Seppur calato nell’ambientazione scarna della campagna, il panorama di The Witch era connotato da una natura (il bosco) minacciosa e prevaricante, mentre la pianura di The Wind è solo accennata, non scandagliata, un fondale inefficace nel tentativo di restituire tanto l’agorafobia quanto, per opposizione, la claustrofobia. Soprattutto, Eggers calava alla perfezione la sua storia di rancori famigliari all’interno di un flusso di eventi iper-scandito e in una temporalità, per quanto a cavallo tra immaginazione e reale, ben definita, nella quale era facile seguire lo scorrere degli eventi. Qui, lo spettatore rischia di perdersi, non sapendo quale sguardo adottare per tutta la durata del film, se quello esterno di chi è estraneo agli eventi o quello della protagonista, senza che questa instabilità identitaria – a causa di un’introspezione approssimativa e superficiale dei personaggi principali, Lizzy su tutti – possa mai risultare un motivo d’interesse o un’ambiguità capace di generare ansia. Accade così che The Wind resti un film dalle buone premesse e dall’ottima resa estetica, ma incapace di restare appiccicato addosso al suo pubblico.