Magic Mike - The Last Dance
La patina pop, l’atmosfera accogliente in realtà è solo un’affascinante esca. L’ultimo tassello di questa Trilogia Dello Spettacolo di Soderbergh è una nuova, lucidissima riflessione sui lati oscuri del capitalismo, perfetto prosieguo delle traiettorie di Panama Papers ma calate nel Reale, dunque più cinico, oscuro, senza speranza.
Si parte in filigrana, da una voce che attraversa le immagini. Magic Mike – The Last Dance inizia in effetti da un voice over tutto interno al racconto, quello di Zadie, una teenager che entrerà in rotta di collisione con la storia del performer Mike ma che, soprattutto, sarà la narratrice di tutta la vicenda, ovvero la messa in immagini di un saggio breve sul ruolo sociologico e sul potere taumaturgico della danza a cui sta lavorando la ragazzina.
Steven Soderbergh, come raramente accade, fa dunque un passo indietro, demanda, anche solo simbolicamente, il controllo diegetico del sistema ad uno dei suoi personaggi e da lì inizia a lavorare ad un progetto che sembra un altro dei suoi exploit sperimentali, il tentativo di osservare dall’esterno il suo cinema, di attraversarlo, di sezionarlo, una mossa divertita che forse prova a chiedersi come lo vedono gli altri ma che, al contempo, probabilmente non spiega fino in fondo un ritorno così particolare negli spazi di questa strana, quasi anomala trilogia dopo più di dieci anni dal primo capitolo. Ma ci arriveremo. Per il momento basti prendere atto della straordinaria leggerezza con cui Soderbergh si muove in questo nuovo contesto, apparentemente lontano dal suo sguardo e dunque dagli obblighi canonici del suo cinema. Il suo passo lo tradisce proprio l’affascinante natura di Magic Mike - The Last Dance, il primo film della trilogia a eleggere quella dimensione spettacolare fino a quel momento solo lambita, raccontata quasi per metonimia a principale centro narrativo del racconto, tutto da smontare, da analizzare nelle sue singole componenti.
Il risultato è un progetto straordinariamente diretto, essenziale, accogliente, rigoroso ma ammantato da un’atmosfera trasognata.
Si potrebbe dire senza particolari remore che Magic Mike - The Last Dance sia il film più pop di Soderbergh da tempo, un racconto giocoso che si adagia tranquillo nelle dinamiche della rom-com, ne ribalta gli stilemi e soprattutto si diverte a infiltrare il musical con elementi presi di peso da uno dei versanti più noti del suo cinema, quello del con movie, da cui provengono certi giochi di montaggio, certe svolte nella trama, certe scelte sintattiche (come la bella sequenza del pedinamento della funzionaria comunale che pare davvero presa di peso da un capitolo degli Ocean’s) ma anche la frenesia che emerge da certi gesti di Mike, dalla sensazione di rischio che le sue azioni si portano irrimediabilmente dietro.
Ma forse occorre fare un passo indietro, forse, quella della truffa divertita, da galantuomini, è davvero l’unica lente possibile per leggere un film del genere. Lo suggerisce, in fondo, proprio il protagonista, ingaggiato da Max, una facoltosa ereditiera latinoamericana (e madre di Zadie) per ingannare, a fin di bene, il gotha dello spettacolo londinese e prendersi una rivincita sul marito impresario. Mike diverrà dunque l’autore di una clamorosa parodia di una classica e polverosa piece borghese, Isabel Ascemde, che all’improvviso farà a pezzi il sottotesto maschilista su cui si regge e muterà in una complessa performance di ballo e spogliarello maschile. Eppure proprio mentre il protagonista ribalta il linguaggio del West End, mischia l’alto ed il basso, la convenzione con lo scandalo, l’orizzonte tematico del racconto si fa irrequieto, quasi si rabbuia.
Mike, si viene a sapere, si ritrova all’inizio della storia a fare il barman perché l’attività imprenditoriale in cui si era imbarcato è fallita a causa del COVID. Il suo spettacolo, nutrito dalle istanze da femminista militante di Max nasce anche perché, secondo lei «le spettatrici devono essere svegliate dal torpore della contemporaneità, devono tornare a sentire la realtà». Neanche il teatro dove si ambienta la performance, tra l’altro, pare essere al sicuro, dato che corre il grave rischio di essere inghiottito dalla violenta gentrificazione in cui da tempo è intrappolata Londra.
Eccolo Soderbergh, eccolo l’inganno più raffinato, lo svelamento più evidente, quello del suo immaginario, del suo orizzonte tematico, fermo, ben saldo in una critica al capitalismo pervasivo e spersonalizzante, alla Giant Beast That Is Global Economy, che in realtà è stato sempre lì fino a questo momento.
E allora c’è forse spazio per riflettere su un affascinante paradosso: perché se è vero che, anche a seguito di questa variazione nel suo spazio superficiale, Magic Mike - Last Dance rimane comunque un film a suo modo popolare per il modo in cui si esprime, ma anche per come raccoglie le tensioni tipiche del suo regista e ne offre quasi una sintesi, un centone leggibile anche allo spettatore meno avvertito, è altrettanto vero che queste traiettorie, da un certo punto di vista, vengono spinte a tal punto al limite che davvero l’ultimo film di Soderbergh sembra posizionarsi in un punto indefinito al di là del suo tradizionale spazio d’azione. Si tratta, in fondo, di un esito prevedibile. Dopotutto, quel processo di svelamento a cui prima si accennava non fa prigionieri e coinvolge anche le singole componenti del sistema, i personaggi, il linguaggio del film, il cui tessuto profondo viene rivelato, la cui funzione finisce per essere ribaltata.
Così quella di Mike non può che essere una clamorosa ribellione del feticcio, pronto a lottare contro una contemporaneità anestetizzata dal consumo, orchestrando una performance che pare fondata su una strana forma di postmoderno militante. Una parodia di una piece borghese che si trasforma in un musical in cui convivono l’immaginario classico, i Minnelli, i Fosse, rigorosamente in forma esplosa e riferimenti a quello Step Up il cui fantasma infesta in modo affascinante non soltanto la carriera di Channing Tatum ma anche le immagini, a tal punto da incorrere in esiti di straordinario impatto. Ne è un esempio il numero di danza sotto la pioggia, vertiginoso tassello che si lega evidentemente tanto a Singing In The Rain quanto ad una delle coreografie della saga dance che lanciò l’attore. Da quest’angolazione a suo modo finale, dunque, Magic Mike - Last Dance riesce a lasciar emergere questioni tanto dense quanto inquietanti, a puntellare il racconto di svolte problematiche, a mettere in dubbio la sincerità del rapporto che l’imprenditrice stringe con Mike, a svelare, senza mezzi termini, al contempo come il performer abbia preso apertamente spunto dal suo rapporto con la donna per organizzare uno dei numeri più complessi dello spettacolo. Dunque, il film si chiede costantemente chi sia il feticcio e chi lo sfruttatore e mette in discussione una lotta di classe che, tuttavia, non sembrerebbe risolvere tali rapporti di forza.
È il film più pop di Steven Soderbergh, Magic Mike - Last Dance. O, forse, è il suo progetto più nazional popolare, nel senso di accessibile a tutti, trasversale, perché è al contempo quello più didattico, quello che svela più platealmente la ferocia del capitalismo e che raccoglie, giocoforza, tutto il pessimismo, l’insicurezza, l’inquietudine del suo regista, perfetto contraltare dello splendido Panama Papers, ma senza il suo distacco saggistico, la sua atmosfera grottesca, piuttosto calato nel mondo vero, fatto reagire con entità a loro modo reali, che del presente non possono evitare, comunque, di portare i segni. Ecco allora perché Soderbergh si affida a Zadie, allora, una mediatrice più che un suo riflesso, un’entità utile a contenere il peso del presente.