La renna bianca
Alla riscoperta di uno dei rari horror finlandesi, con un’opera preziosa, al confine fra documentario etnografico e ombre espressioniste.
Terra ai confini del mondo, la Finlandia trabocca di miti e leggende che, a livello letterario, trovarono nel Kalevala – il poema epico composto da Elias Lönnrot nella prima metà dell’Ottocento, sulla scorta di racconti e saghe tradizionali finlandesi, careliane, lapponi, estoni – la più grandiosa e compiuta sistemazione. È curioso rilevare come Lönnrot fosse un uomo di scienza (medico e botanico), oltre che un umanista, e come la sua impresa filologica fosse evidentemente animata non solo da propositi poetico-letterari, bensì anche da un criterio storico-antropologico.
Sul versante della produzione cinematografica finlandese, si può notare, almeno agli inizi, una certa contiguità teorica col lavoro di Lönnrot. Infatti, nel primo ventennio del Novecento a prevalere fu l’approccio documentaristico, soprattutto nella figura del regista Sakari Pälsi, in grado di anticipare alcuni temi e stilemi dei fondamentali lavori di Robert J. Flaherty degli anni Venti e Trenta. Non è probabilmente peregrino affermare, quindi, che la dimensione epica delle narrazioni filmiche folk provenienti dalla “Terra dei mille laghi”, più che aderire alla costruzione tipica del cinema di finzione tout court, si sia giovata sovente della veri(dici)tà impressa sui luoghi e sui volti senza tempo delle persone che li abitano, da un reale costitutivamente leggendario.
La renna bianca (conosciuto anche col fuorviante titolo Il bianco pastore di renne) si colloca esattamente al confine fra cinema-verità etnografico e cupo dramma psicologico, e trae la propria forza proprio da tale dicotomia. Il regista Erik Blomberg, non a caso, proviene dal documentario, ma le sue immagini sono circonfuse di una potenza espressiva che travalica i confini del reale, pur restandovi saldamente ancorate; una potenza espressiva che, peraltro, non passò inosservata né a Cannes né negli USA, dove il film ricevette – l’anno successivo alla sua uscita, datata 1952 – importanti premi e un riconoscimento internazionale che tuttora gli consente di preservarsi dalle secche di un immeritato oblio. Blomberg scrive la sceneggiatura a quattro mani con la moglie Mirjami Kuosmanen, che interpreta anche la protagonista Pirita, e la mano femminile si può avvertire distintamente nel tratteggio di un personaggio estremamente articolato come quello della donna-renna stregata, che mette a repentaglio l’equilibrio della società di appartenenza, venendone respinta.
In un minuscolo villaggio lappone, in un imprecisato punto temporale del Medioevo, si intrecciano le vicende collettive di una comunità di cacciatori e allevatori con quelle personali di una donna, Pirita, animata da un fiero spirito indipendente e dall’insopprimibile urgenza di affermare la propria soggettività come volontà e desiderio, tuttavia senza smarrire mai del tutto il senso di appartenenza al suo popolo. Come in ogni fiaba che si rispetti, perché La renna bianca è soprattutto una meravigliosa fiaba nera e tragica, la donna ricorrerà alla magia per realizzare i propri disegni, e da questa otterrà un dono che si configurerà irreversibilmente come una condanna.
Pubblico e privato, religione cristiana e antiche credenze sami, maschile e femminile, uomo e natura, ma soprattutto Legge e Desiderio sono i duali tematici che innervano il racconto filmico e innescano l’evoluzione drammaturgica al cui centro ritroviamo Pirita, la donna che riceverà, dopo un cruento rituale sacrificale, il talento funesto di essere concupita da tutti gli uomini del villaggio, ma domata da nessuno (nonostante il suo amore per il marito Aslak, interpretato da Kalervo Nissilä), diventando una sorta di donna-vampiro, una mortale donna-renna, ibrido mostruoso e nondimeno conturbante. Sotterraneamente il film è percorso dall’ulteriore duale conflittuale fra totem e tabù, che costituisce il fulcro attorno a cui ruotano gli altri e da cui essi traggono le proprie motivazioni profonde. La comunità sami raffigurata è imbevuta di atavici principi morali e religiosi pre-cristiani (essendo i rituali cristiani una sorta di appendice pubblica della vita sociale) e trova nella figura della renna il coagulo fatato della propria armonia. L’animale in questione è fonte di soccorso e sostentamento sia da viva sia da morta, ed è perciò sacro, al servizio di un popolo che se ne prende cura. In un’area consacrata della tundra che circonda il villaggio è situato infatti un simbolo totemico, alla cui sommità è collocato il teschio di una renna. Nel momento stesso in cui Pirita sopprime un cucciolo bianco di renna di fronte all’idolo, per portare a compimento il rituale che modificherà la propria natura e il proprio destino, ella a un tempo infrange il tabù dell’intangibilità del sacro, uccidendo l’animale per scopi difformi da quelli che ne sanciscono il ruolo nella comunità, e disonora il totem, invocandolo per realizzare i propri scopi personali, in conflitto coi precetti pubblicamente accettati. Un altro e definitivo tabù verrà quindi infranto – a partire dall’empio atto primigenio della donna – con l’omicidio, a cui seguiranno i primi cenni di disgregazione della comunità, la cui armonia potrà essere ripristinata solo con la dissoluzione dell’elemento perturbatore. Non va dimenticata, inoltre, la peculiare importanza simbolica della renna bianca (animale evidentemente raro), uno dei cui esemplari veniva immolato dai sami a Beaivi, la divinità solare, durante il cerimoniale del solstizio d’inverno. Oltre a ciò, il fatto stesso che Pirita si trasformi, nei momenti di trance/possessione, in una renna bianca, esattamente come quella da lei uccisa, indica la pena di un beffardo contrappasso.
Un ulteriore e determinante punto di forza della pellicola si situa nel visivo, da cui emanano tutta la potenza e il senso dei duali in conflitto. L’elemento verbale dialogico è puramente residuale, giacché la costruzione visiva, l’impianto gestuale e recitativo, la magnifica colonna sonora di Einar Englund (con rimandi a Sibelius, ma anche ai grandi compositori russi del Novecento) sono perfettamente calibrati per esprimere le passioni e delineare i tratti salienti (anche e soprattutto emotivi) del territorio, unitamente alle attività degli uomini che lo abitano. La progressione narrativa trae vigore non tanto dai conflitti fra i personaggi, bensì dalla sinergia fra documentazione socio-antropologica e costruzione finzionale di taglio espressionista, in cui è la luce ad aprire o chiudere il paesaggio, a tracciarne i rilievi e sfumarne i contorni, donando tono e atmosfera alla lotta fra l’uomo e una natura magnifica ma annichilente. È la luce, ancora e infine, a duellare col volto di Mirjami Kuosmanen/Pirita, conferendogli armonia o dissonanza in mille sfumature chiaroscurali e geometriche, esprimendo tutta la gamma psicologica ed emotiva della donna, quasi senza bisogno di recitazione. Un cinema di confine, in tutti i sensi, che abita un altro tempo, il tempo della magia.