Eva Braun
L'oscenità del Potere nell'ultima, perturbante opera di Simone Scafidi

“Sono stato allevato in profonda solitudine e, fin dove posso ricordare, ero angosciato da tutto ciò che è sessuale”.
Parla con le parole del Bataille di Storia dell’occhio il protagonista di Eva Braun, alla ricerca stentata del senso di un’ossessione, di una disfatta morale ed emotiva persa tra le pieghe degenerate di un intero sistema.
É un’intima e grottesca parata dell’eccesso quella che il regista indipendente Simone Scafidi mette in scena con il suo ultimo, provocatorio lungometraggio: operetta (im)morale e allegorica che proprio alla società guarda, trovando, nemmeno troppo velatamente, ispirazione nello scandalo dell’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e del così detto “bunga bunga”.
Eppure Eva Braun, senza perdersi nel gioco cronachistico e infinito dei rimandi, senza voler essere politico nel senso più stretto del termine, sa essere un prodotto a sé stante, un film anomalo e potente, rivelatore e disturbante, in grado di farsi sguardo inedito e sgradevole sul proprio presente, ben al di là del più desolante gossip, oltre la più scontata e retorica opera di costume.
Inevitabilmente prossima, per intenti, tematiche ed estetica, al Salò di Pasolini, l’opera del regista milanese riprende le fila di una degenerazione arrivata al suo epilogo nel trionfo definitivo del corpo e della sua mercificazione, capolinea osceno e sadomasochistico sul Potere e i suoi equilibri, le sue dinamiche, i suoi giochi.
É a questi giochi (“cose normali”) che prendono coscientemente parte i protagonisti di Eva Braun, giovani ambiziosi e afasici, colmi di velleità artistiche e cinismo, vittime sempre più consapevoli dell’incubo arido e cannibale del reale.
Continuando quel percorso infernale che da Gli Arcangeli ne costituisce la personalissima, disturbante poetica, Scafidi risale il fiume dell’ossessione fino alle origini del Male e del suo corrotto e degenerato legame con il Potere.
Ne trae un massacro dell’assurdo, un Decameron degli anni zero che fa scempio delle contraddizioni, del dualismo tra vittime e carnefici, innocenti e colpevoli, dove il Male si rinnova nella sua ottusa, opportunistica banalità e il sesso, sotto forma di un erotismo glaciale e straniante, feticista e manipolatorio, si lega indissolubilmente, per l’ennesima e ultima volta, alla meno catartica delle morti.
É in quegli agghiaccianti, grotteschi “pomeriggi tra amici” che va allora in scena il valore assoluto di un corpo che basta a sé stesso, oggetto elevato a essenza nell’era di un edonismo che non sa che farsene di un senso altro, nascosto, impalpabile.
Tra i corpi nudi dei suoi interpreti, umiliati di fronte al loro benefattore/carnefice, sezionati davanti a un obiettivo impietoso, esposti dinnanzi a un pubblico invitato a salire su quel palcoscenico di depravazione, o semplicemente avvinghiati in sequenze orgiastiche ed estetizzate, Scafidi fotografa, attraverso campi e controcampi, la deriva narcisista di una fisicità divenuta unica merce di scambio, valore assoluto di un mondo che non conosce più vergogna e dignità.
Sgradevole, disturbante, insostenibile, Eva Braun, senza mezze misure né compromessi, colpisce il bersaglio con la sua forza fascinosa e ammaliante, la stessa di quell’oscuro potere di cui sa farsi riluttante portavoce e dal quale non può esserci più scampo né speranza.