Il varco - Once More Unto the Breach
The second life of images. Il discorso intermediale e la pratica del ri-uso delle immagini d’archivio.
1941. Il Regno d’Italia si unì all’Operazione Barbarossa, promossa dalla Germania nazista, che prevedeva l’invasione dell’Unione Sovietica. A luglio i primi soldati partirono per il fronte orientale che divenne teatro di alcune delle più sanguinose e brutali battaglie della Seconda Guerra Mondiale. Federico Ferrone e Michele Manzolini, già autori de Il treno va a Mosca (2013), decidono di raccontare la campagna di Russia nella loro ultima opera, Il varco, utilizzando materiale d’archivio proveniente dall’Istituto Luce e da Home Movies - Archivio nazionale del film di famiglia. L’immagine d’archivio diventa immagine della memoria che riprende vita attraverso una testimonianza anonima, un racconto finzionale liberamente ispirato alle vite e ai diari dei militari Guido Balzani, Remo Canetta, Adolfo Franzini, Nuto Revelli, Enrico Chierici e Mario Rigoni Stern. La voice over di Emidio Clementi racconta l’esperienza di un soldato italiano di origine russa, che parte in treno verso l’Ucraina, attraversando la Moldavia, la Romania e l’Ungheria. Accolti in un primo momento come salvatori, i militari italiani iniziano ad avventurarsi in un territorio desolato, spettrale, ormai ridotto in macerie dall’esercito sovietico nel corso dell’arretramento.
Le immagini d’archivio che in un primo momento mostrano una serie di volti gioiosi e felici, un viaggio in treno verso l’oriente animato da preziosi e affettuosi incontri con le popolazioni locali, iniziano, progressivamente, a rivelare un paesaggio completamente devastato dal fuoco del conflitto. «I cadaveri abbrustoliti dalla benzina assomigliano a verruche della terra. Nelle trincee piene d’acqua galleggiano maschere antigas. Ovunque odore di carne fradicia e piscio» commenta la voice over mentre vengono mostrate le immagini di un plotone allontanarsi da un edificio in fiamme, verso un orizzonte sconfinato e apparentemente privo di qualsiasi forma di vita. I soldati man mano perdono ogni entusiasmo, la vittoria si allontana sempre di più mentre ad avanzare è un inverno rigidissimo. Il protagonista inizia a ripensare alla propria amata mentre affiorano anche gli angoscianti ricordi di guerra - la campagna d’Africa - che continuano a perseguitarlo. «A volte, mentre si sta dormendo veniamo svegliati da rumori sinistri. “Partigiani” urlano alcuni. A me sembrano più strani animali, o spiriti in pena che vagano in cerca di riposo» prosegue la voice over.
Nonostante non vengano mostrate scene particolarmente crude o effettivamente riconducibili ad un conflitto a fuoco, escluso un filmato ripreso in notturna, la traccia del trauma della guerra si insinua profondamente nelle immagini e diviene presenza dislocata, repressa, latente. Attraverso la pratica filmica dell’archiveology, come approccio metodologico critico e principio epistemico, manipolando e ri-montando materiali d’archivio il film promuove un processo di “rimemorazione”, di revisione e di ri-attivazione del passato nel presente. Una volta ricontestualizzate e inserite all’interno di una narrazione, le immagini d’archivio acquisiscono infatti un nuovo valore testimoniale e traumatico. Nonostante non mostrino uno scenario violento e luttuoso, e siano state realizzate con altre intenzioni, agli occhi dello spettatore non possono che rappresentare la tragica realtà del conflitto, senza pietismo o vittimismo. Riposizionate in un nuovo circuito di senso, vanno a costituirsi come oggetti funzionali alla costruzione di una memoria collettiva.
L’immagine di repertorio diventa quindi strumento attivo di ordine conoscitivo, capace di rileggere e riformulare il passato storico, inoltre, nel momento in cui viene re-inserita in un discorso intermediale. Le immagini di repertorio vengono infatti alternate a riprese effettuate nel presente in alcuni territori, teatro della Seconda Guerra Mondiale, dove ora si sta combattendo un altro conflitto, la guerra del Donbass, come sottolineano, in apertura del film, alcuni “intertitoli”. Il paesaggio è nuovamente in rovina, un traumascape, e nonostante sembri apparentemente anonimo e privo di vita conserva e incarna le tracce di un trauma, è un luogo infestato dai fantasmi del passato, uno spazio in cui collidono l’immaginazione e la memoria repressa.