Bring Me the Head of Carmen M.
Il Brasile contemporaneo come messa in scena impossibile. Come canzone che non si riesce a intonare. Come flusso di coscienza nel caos politico e nel mistero di un paese in tumulto, sulle tracce del fantasma di Carmen Miranda. Un film politico e poetico.
Il Brasile contemporaneo come messa in scena impossibile. Come canzone che non si riesce a intonare. Come flusso di coscienza che cerca di addentrarsi nel caos politico e nel mistero di un paese in tumulto - il Brasile del dopo Lula, alla viglia delle elezioni che porteranno il partito di ultra destra di Jair Bolsonaro alla vittoria - sulle tracce del fantasma di Carmen Miranda.
Ana - interpretata dalla co-regista Catarina Wallenstein - è un’attrice portoghese a Rio de Janeiro, impegnata nelle prove di uno strampalato film in cui deve recitare la parte della cantante che, più di tutti, ha incarnato lo spirito del paese. Interpretare Carmen Miranda è interpretare il sogno del Brasile, imitarne la felicità e portare il peso dei tropici.
Nella ricerca di Ana sul corpo e sulla voce dell’icona si riflette l’esigenza dei due registi di raccontare il Brasile moderno. Ma il Brasile di oggi può essere raccontato solo come farsa o come autopsia, spiega ad Ana la regista. È un’amnesia. Un’utopia tropicale a colori sgargianti. Un labirinto in rovina, animato da spettri di un passato che non passa. Un incubo a ritmo di samba dove il mito si scontra con la realtà.
Bring Me the Head of Carmen M. ha la gravità del bianco nero nelle scene in cui seguiamo Ana alle prove e nel pedinamento del suo quotidiano. Come se la realtà fosse più irreale del mito, sempre a colori, sempre vivace.
La vediamo agghindata di perle e turbante, inquadrata di spalle, ricoperta d’oro e lustrini, come in una scena onirica ricorrente. La Carmen senza volto di un paese senza identità.
Oppure la ritroviamo come manichino inerte, senz’anima e senza vita, raccolto da un travestito dalle strade della Lapa, quartiere popolare dove la diva era cresciuta, abitato da un’umanità variopinta di malandros, musicisti e prostitute. Il Brasile come corpo dormiente, che dimentica le ferite di un passato costruito sul sangue, sulla schiavitù e l’esilio, racconta ancora Ana in uno dei suoi monologhi sulle immagini di una parata militare che echeggia un passato terrificante. La riflessione metalinguistica sull’allestimento del film si alterna a uno sguardo semi documentaristico, sui monumenti, le strade e i quartieri dove spari e fuochi d’artificio sembrano confondersi. Brasile come disordine e paura, dove i palloncini legati al costume di Ana esplodono come fossero colpi di arma da fuoco. Recuperando certe istanze del Tropicalismo e le celebrazioni della “cultura cannibale” dei tardi Sessanta, sorte anche come rivolta alle politiche di allora, il film sembra dare sostanza alla recente tesi del sociologo Ricardo Antunes, che vede nell’odierna crisi del paese il continuum del governo militare del ‘64.
Felipe Bragança e Catarina Wallenstein raccolgono tutta l’urgenza dell’attualità in un film girato in sei mesi per mostrarci la carcassa di un paese lacerato e raccontare l’incubo grottesco in cui è sprofondato. Un film politico e poetico. Sperimentale e libero. Fatto di camera a mano, primi piani allo specchio e voci off ricorrenti.
Uno sguardo aperto sul sogno (colorato) e uno sul dramma reale (in bianco e nero) ma uno sguardo che non si può sostanziare. E si scontra con l’impossibilità di definire la nuova identità del paese. Triste tropico che non riconosce se stesso e, come dice Ana, «ha bisogno di ricominciare da capo per perdonare il proprio cuore».