Square
Karolina Bregula chiude il concorso del 55° Pesaro Film Festival con una cupa riflessione politica sul ruolo dell'arte nella società, tra film di finzione e installazione contemporanea.
L’arte, e di conseguenza il ruolo dell’artista, possono ancora cambiare le cose in modo concreto? In un mondo dove anche il messaggio più nobile rischia continuamente di trasformarsi in prodotto indifferenziato, svuotato di senso, è ancora possibile uno sconvolgimento che porti a una matura presenza di coscienza? Che rapporto si instaura, oggi come prima, tra l’artista e il pubblico al quale ci si rivolge? La regista e video-artista polacca Karolina Bregula è partita da questi quesiti per il suo Square, ultimo film in concorso al 55° Pesaro Film Festival, al cui centro si instaura proprio il terrore verso l’eventualità di una domanda che non verrà mai posta. Nella piazza di una cittadina in Taiwan, infatti, una statua nascosta da alcuni cespugli inizia a parlare ai passanti ripetendo in continuazione, prima con tono gentile e poi in modo sempre più insistente, la frase “vorrei farti una domanda”. La curiosità di alcuni abitanti e lo scetticismo di altri si trasformano presto in preoccupazione e aperta ostilità, fino a che la situazione non diventa insostenibile, quando la statua inizia ad urlare senza sosta le stesse parole.
Nella sua essenzialità narrativa, Square ci pone di fronte a un quadro arido e preoccupante di coscienze sopite, in cui interrogarsi su stessi e sul mondo che ci circonda è già di per sé un atto sovversivo. Dinanzi al pericolo di una domanda, le reazioni sono diverse ma quasi tutte poco consolanti: c’è chi rifiuta perentoriamente questa eventualità, fino a dare vita a gruppi reazionari, chi nella sua indolente indifferenza spera che accada qualcosa senza darsi la pena di intervenire, e chi semplicemente si lascia cullare dal canto della statua, forse disinteressato a comprendere il valore di quelle parole. La mobilità di pensiero invocata con fiducia e poi urlata dalla statua, si scontra con la fissità di una società alienata nella sua asfissiante routine, tanto nel lavoro quanto nella vita privata. Momenti che Bregula ci restituisce nella loro coercizione attraverso lente inquadrature a macchina fissa abitate da figure che si muovono con lentezza a tratti disumanizzante, in totale contrasto con la concitazione della macchina a mano delle scene meta-filmiche ambientate a Varsavia, in cui la stessa regista, in corsa verso una meta imprecisata, espone guardando in macchina le ragioni che l’hanno portata a realizzare il film.
Tanto nella quotidianità di chi vive passivamente la propria vita, quanto nella ricerca dell’artista mosso dall’urgenza del cambiamento, la parola risulta così impotente, trasformata in refrain sempre più privo di senso, ripetuto dai passanti ma mai assimilato con coscienza. Inevitabile - e poco ottimista - risulta allora il cortocircuito cui arriva Square: scontata l’impossibilità di trasmettere il contenuto del messaggio, non resta che rigurgitare la protesta presa in quanto tale. La parola perde di significato, trasformata prima in canto - e dunque in ritmo e melodia -, reiterata fino allo sfinimento e poi ridotta in urlo disperato, unico modo per sconvolgere. Con la scelta di inserire l’installazione artistica all’interno della finzione narrativa - la statua nascosta dal cespuglio e la circoscrizione dello spazio, limitato appunto a una piazza, fanno pensare proprio a una sorta di installazione da museo in cui coinvolgere direttamente il pubblico - Bregula lega ancora di più la riflessione sull’efficacia dell’arte al nostro presente, attenta però a non sottrarre al proprio lavoro una valenza che resta, nell’incomunicabilità tra artista e pubblico, di portata più universale. Se nel finale si arriva sì allo sconvolgimento ma non alla presa di coscienza tanto cercata - tranne forse che per pochi -, e se delle istanze che muovono l’artista sembra sopravvivere soltanto la disperazione per una missione frustrata, resa ancora più incomprensibile a chi non vuole scardinare le proprie certezze, - non importa quanto illusorie -, l’ultima inquadratura ci concede comunque, timidamente, la possibilità di una piccola speranza.