Gelsomina Verde
Tramite il racconto corale di un brutale omicidio di mafia, Massimiliano Pacifico tenta di penetrare nelle contraddizioni emotive di un ambiente sociale allo sbaraglio.
La notte del 22 novembre del 2004 un’auto bruciata viene trovata a Napoli, nella periferia di Secondigliano. I poliziotti che accorrono sul posto trovano un corpo quasi del tutto carbonizzato, e non possono fare a meno di immaginare un’altra vittima, l’ennesima, della faida mafiosa che sta spargendo sangue per tutta Scampia. Da un mese le famiglie camorriste si stanno facendo guerra per il controllo del territorio, tra continue esecuzioni di affiliati delle diverse fazioni e le relative, tragiche ripercussioni per i loro parenti. Facile dunque pensare che quel cadavere dilaniato dalle fiamme sia l’ennesimo pregiudicato colpevole di aver imboccato la strada sbagliata. Per questo è un shock tremendo scoprire che il morto in questione è una ragazza di soli 22 anni, di nome Gelsomina Verde. Non aveva mai fatto niente di male, a parte un errore considerato fatale dai camorristi: frequentare per qualche mese un ragazzo che aveva tradito la “famiglia” ed era fuggito. Tanto era bastato per considerare la ragazza qualcuno da interrogare, torturare brutalmente, uccidere e poi bruciare.
Gelsomina Verde parte da questo orribile omicidio proponendosi un obiettivo duplice: raccontare e capire qualcosa che è sia troppo facile che impossibile da comprendere. Difatti alla fine ciò che di cui si sta parlando è una questione di degrado sociale e culturale, qualcosa per cui è assai semplice approcciarsi con sdegno a distanza. E d’altra parte l’omicidio di Gelsomina detta Mina, che si divideva fra volontariato e lavoro nel tentativo di apportare un contributo positivo alla travagliata collettività del suo quartiere, è qualcosa che va oltre una semplice reazione di disgusto, perché è stato generato anche dalla comune omertà di chi, non specificatamente criminale, ha comunque preferito rimanere in silenzio. Non a caso la famiglia di Gelsomina sarà l’unica a costituirsi parte civile nel processo, quasi che l’accaduto non riguardasse gli altri abitanti del quartiere.
Narrare la storia di Gelsomina significa raccontare la comunità in cui è nata e cresciuta, e per ciò molto intelligentemente il regista Massimiliano Pacifico si serve di un'altra comunità in piccolo, ovvero un collettivo teatrale (Collettivo Mina) gestito qui dal drammaturgo Davide Iodice, allo scopo di tentare di mettere in scena un contesto ben particolare. Ciò non significa una semplice rappresentazione del fatto, quanto di un racconto corale che è anche elaborazione meditata attraverso punti di vista diversi e contraddizioni condivise, unite alla testimonianza del fratello di Mina, Francesco, anch’esso perdutosi allora sulla medesima strada fatta di carcere e reati.
Il punto più potente dell’opera di Pacifico è proprio questo emergere di voci che talvolta si sovrappongono incomprese e discordi – il killer, l’amica omertosa, il fratello, il poliziotto - perché il caso di Gelsomina ha attirato a suo tempo sospetti e pregiudizi: perché la ragazza aveva avuto una storia con un ragazzo poco raccomandabile? Perché la sua famiglia ha accettato un risarcimento da Cosimo Lauro, considerato il mandante dell’omicidio? E in fondo, non è tutta colpa della stessa Scampia, dove fin da bambini per tanti viene facile essere automaticamente instradati verso il crimine e l’affiliazione verso una o un’altra famiglia mafiosa?
Invece di assopirsi sugli allori di una facile pietà Gelsomina Verde racconta la struttura sociale dilaniata e corrotta, l’assoluta mancanza di scelte alternative per i giovanissimi, la mafia come figlia e madre di una povertà economica, lavorativa e culturale che avvelena ogni appartenente al quartiere. Condanna, ma cerca anche di indagare emotivamente oltre l’istintivo ritrarsi orripilati. È il modo migliore, oltre ogni ritratto martirizzante, per capire la vita e le scelte di una ragazza che ha preferito sporcarsi le mani all’interno del suo mondo sbagliato, per provare a migliorare a migliorarlo, piuttosto che dissociarsene completamente.