Con la proiezione di J’enrage de son absence è partita ieri sera la rassegna Femminile singolare. Retrospettiva Sandrine Bonnaire, curata da Fabrizio Colamartino e Marco Dalla Gassa e contenuta all’interno della 13° edizione del Sottodiciotto Film Festival. Un omaggio ad un’attrice che passata dietro la macchina da presa si è presto configurata come autrice consapevole e preziosa. In occasione della retrospettiva Point Blank ha avuto modo di incontrarla:
Prima di approdare alla regia lei ha lavorato come attrice per diversi registi importanti. Quali di questi hanno influenzato maggiormente il suo approccio dietro la macchina da presa?
In realtà non ci sono riferimenti specifici, non ho avuto influenze particolari da nessuno dei registi con cui ho lavorato. Volevo che fosse una sfida con me stessa, ho cercato in qualche modo di imparare da tutte le lezioni che ho ricevuto da questi autori per vedere poi di che cosa fossi capace da sola. Sicuramente però il fatto di esser stata attrice ha molto influenzato il mio mestiere di regista. Conosciamo molto bene il fare cinema davanti alla macchina da presa, ma quando ho iniziato a passare dietro la cinepresa mi sono resa conto che conoscevo anche l’altro aspetto, l’altra visione. Il desiderio mi è nato dal fatto che recentemente, negli ultimi anni, ho interpretato molte opere prime, e in quei casi il mio ruolo andava al di là di quello dell’attrice. Mi sentivo molto coinvolta, dando anche dei suggerimenti a questi registi, e da lì è nata la mia voglia di passare alla regia.
E dal punto di vista attoriale? Quali sono i modelli del passato che possiamo dire l’abbiano influenzata?
Da giovane adoravo Brigitte Bardot, ero una sua grande ammiratrice. Mi piaceva la sua libertà, la sua audacia e bellezza. Non nutrivo però il desiderio di intraprendere quella carriera, e quindi non ho mai avuto fantasie sul tipo di attrice che volessi diventare, non avevo dei modelli precisi. Ero soltanto in grado di ammirare qualcuno, di essere una fan come nel caso della Bardot. Per il resto ho semplicemente ammirato attrici in determinati ruoli che hanno interpretato.
Parliamo del suo cinema da regista, in cui la componente autobiografica è molto forte. Tanto nel documentario Elle s’appelle Sabine, in cui prende di petto la sua storia famigliare, tanto nell’ultimo J’enrage de son absence, in cui la filtra attraverso una storia inventata.
In realtà nel mio documentario Sabine [sorella dell’autrice] è il punto di partenza ma non il tema del film; la sua storia è un esempio delle tante carenze nelle strutture sociali che sono comuni a molti paesi, specie nell’assistenza sanitaria e con riferimento specifico all’autismo. Si tratta più che altro di un atto politico senza un’esigenza così spiccata di autobiografismo, anche se naturalmente il punto di partenza è mia sorella. Nel caso di J’enrage de son absence invece lo spunto del film è stata una persona che ho incontrato e conosciuto quando ero molto piccola, e che ai miei occhi appariva eroica per una sua decisione così estrema. Era infatti un uomo che ad un certo punto aveva scelto di non vivere più, di rinunciare alla sua vita; un atto di per sé così terribile che però ha una grande componente di eroismo, dato che per arrivare a compiere una scelta come questa si deve comunque avere moltissimo coraggio. Quindi forse il punto di contatto tra il documentario e la finzione è proprio l’eroismo. Per me Sabine è una figura eroica, che riesce a nutrire ancora un grande amore per la vita con tutto quello che ha subito e sofferto. Allo stesso tempo però anche l’uomo che ha dato spunto alla storia del film è un eroe per il coraggio della sua scelta, per quanto speculare.
Questo aspetto autobiografico di vissuto personale per lei è importante anche nel suo ruolo di attrice?
No assolutamente, anzi è in realtà il contrario. Quando sono attrice prendo molta distanza non soltanto da me stessa, dalla mia vita personale, ma anche dal personaggio. Per me il mestiere di attore è un poco come quello del pittore, che da un lato si avvicina alla tela per dipingerla ma poi ha sempre bisogno di allontanarsi per vedere come sono i colori. Questo movimento di allontanamento per me è molto importante, per vedere i colori del personaggio e per riuscire ad interpretarlo.
Lei ha recentemente dichiarato che potrebbe anche smettere di recitare ma mai di raccontare storie. Dopo un film comunque così personale come vede il suo prossimo futuro? Che tipo di storie le interessano adesso?
Continuerò a fare entrambe le cose, anche se devo dire che recitare non mi manca, mentre credo che se smettessi di realizzare film ora sentirei la mancanza di questo modo di raccontare, perché credo che nella regia ci sia qualcosa di più forte. Per il futuro più prossimo ci sono già due progetti che vorrei realizzare. Il primo è un film per bambini, ma non di animazione: un film di finzione con un’anima per i bambini. L’altro è un film che narri i destini di tre donne appartenenti alla stessa famiglia, quindi tre generazioni di donne. Credo che l’esigenza nasca dall’importanza che il tema della famiglia ha per me; temo che ognuno di noi prenda inevitabilmente forma dalla famiglia da cui proviene. La famiglia è molto importante.
A riguardo, la sua è stata una famiglia operaia molto numerosa, che cosa le ha dato, cosa ha portato con sé nel cinema di questa formazione?
Direi che la cosa principale è la mia lucidità. Ho iniziato a fare l’attrice a quindici anni, e non è facile iniziare così presto. Quello che mi ha sempre accompagnata è stata l’educazione che ho ricevuto dai miei genitori, molto semplice, basata su principi elementari, e questo lo devo totalmente ai miei genitori, che mi hanno sempre insegnato a restare con i piedi per terra. E’ qualcosa che non ho mai dimenticato, anche se il mestiere mi ha sicuramente rafforzato ed educato a sua volta; ho comunque sempre conservato un piede nel confort e nel lusso che ho via via acquisito e un piede nella realtà, quella che condivido con tante altre persone al mondo. E’ importante la capacità di guardare bene quel che si ha.
Torniamo a J’enrage de son absence. La cantina, luogo centrale del film, è da sempre nel cinema il luogo del rimosso e dei ricordi dolorosi. Come mai ha scelto questo spazio per ambientare parte del film?
Per me la cantina simboleggia tante cose. Principalmente il ventre uterino e materno, con riferimento diretto a questo figlio, che non c’è più. E il paradosso, nel caso del protagonista, è che in questo luogo così buio e scuro, lui arriva a trovare la luce attraverso una sorta di rinascita, incontrando in questo ventre un bambino che non è il suo. E’ un film che ho scelto anche di fotografare in modo molto verticale, o meglio a forma di croce. C’è un alto e c’è un basso che va al di là del sottosuolo, ma al tempo stesso il formato è orizzontale, il cinemascope a 2.35:1. E in qualche modo ciò simboleggia per me il lutto, o la mancata elaborazione del lutto, che è il problema principale del protagonista.
Nel film c’è un interessante lavoro sul fuori campo: non c’è neanche un flashback e le fotografie non vengono mai mostrate direttamente. Voleva fare un film esclusivamente ambientato nel presente? Oppure la sua è una scelta morale?
E’ stata la scelta stilistica più difficile nel film, però la sfida per me era far capire il passato di questa coppia senza mostrarlo, quindi senza voce narrante, senza flashback. E’ stata una scelta assolutamente voluta perché sono stufa di quella voce fuori campo che ormai troviamo ovunque, è troppo facile lavorare con una spiegazione sempre lì, pronta in tutto e per tutto. Il fatto di non mostrare in modo diretto le fotografie è dovuto al fatto che per me sia più importante inquadrare lo sguardo di un attore mentre guarda una cosa e non ciò che sta osservando. Trovo poi che sia sempre troppo facile utilizzare lo stratagemma degli inserti, quasi didascalici, che spiegano qualunque cosa. L’altra scelta precisa è stata quella di rendere il film a-temporale; poteva essere ambientato negli anni ottanta oppure nei 2000. Non so se avete notato, non ci sono cellulari né computer perché, oltre a trovarli visivamente brutti, nella mia mente collegano il film ad un contesto temporale, e non volevo che il pubblico si ponesse la domanda di questa collocazione.
Qui al Sottodiciotto il festival è stato aperto da un cartone animato con la voce di Chabrol. Può darci un piccolo ricordo di questo grande maestro che non c’è più?
Chabrol era qualcuno che amava molto cantare; c’era una tradizione su ogni suo set, per cui alla fine delle riprese lui invitava tutta la troupe a cena in un grande ristorante – era una persona molto generosa – e alla fine della serata si metteva a cantare con sua moglie, ma dato che cantava malissimo tutti noi gli lanciavamo i tovaglioli addosso.