Come Richard Kelly ci ricordava qualche anno fa, Tolkien scrisse nel suo English and Welsh (contenuto in italiano nella raccolta Il Medioevo e il fantastico) di come determinate combinazioni di parole della lingua inglese fossero intrinsecamente belle, di uno splendore assoluto che trascenda la semantica per vivere nella pura estetica. E come di questi sintagmi Cellar Door sia tra i migliori. Nonostante ciò che dica Tolkien però anche il significato di Cellar Door ha il suo fascino, quella porta della cantina che è ormai simbolo psicanalitico ed esistenziale di rimosso, sepolto, nascosto nel profondo della coscienza e a volte lasciato lì a morire. Del resto è attorno a questo simbolo che è costruito J’enrage de son absence, opera seconda di Sandrine Bonnaire vista pochi mesi fa a Cannes ed oggi in concorso al MedFilm Festival, occasione preziosa per vedere in sala un film affascinante e disturbato, che cresce dentro nel tempo a venire lasciando nello spettatore resti di sé. Come tracce in cantina.
Morto l’anziano padre, Jacques torna in Francia per occuparsi delle pratiche necessarie. Sono anni ormai che ha abbandonato il paese per gli Stati Uniti, precisamente da quando ha divorziato da Mado. Il loro rapporto era infatti stato compromesso dalla morte del figlio piccolo, rimasto ucciso in un incidente stradale. Da allora Jacques vive in America riempiendo la propria esistenza con il lavoro, mentre Mado è riuscita ad incontrare qualcun altro, rimettendo in piedi quella famiglia distrutta dagli eventi. Al suo ritorno in Francia però Jacques fa in modo di rincontrare la vecchia compagnia, confessandole la propria natura di mero sopravvissuto alla vita, guscio d’uomo svuotato da un lutto che non riesce a metabolizzare. Mado ora però è madre di un bambino di sette anni, Paul, un figlio che lascia incontrare a Jacques per alleviare forse, almeno per un poco, le sue sofferenze. Tra i due però si svilupperà un rapporto strettissimo e morboso, vicino alla pedofilia per gli atti e i gesti ma puramente limitato e determinato in una dimensione di affetto, di amore. Il bisogno di avere a fianco Paul sarà per Jacques talmente forte da organizzare incontri nella cantina della nuova casa di Mado, appuntamenti nascosti tra i due in cui vengono tirati fuori i giocattoli del primo figlio, colui che è per Paul fratello maggiore e minore allo stesso tempo, essendo morto a soli quattro anni. Affascinato dalla possibilità di rievocare questa figura, dall’atmosfera di gioco segreto e forse da un sentimento ideale e sotterraneo nato per Jacques, Paul non svelerà mai ai genitori questi incontri, neanche quando questo strano compagno di giochi si trasferisce praticamente in cantina a vivere lì, passando le sue giornate come un cadavere sepolto sotto terra.
La cosa più affascinante del film della Bonnaire – oltre alla prima, immediata, ovvero il suo splendido titolo – è la consapevolezza con cui la regista usa una metafora totale dall’alto rischio didascalico. La cantina è infatti, lo dicevamo in apertura, un simbolo ormai codificato, sul quale può essere rischioso costruire un intero film senza precipitare nella banalità e nel simbolismo da due soldi; J’enrage de son absence invece riesce in qualche modo a scartare tutto questo, superando il fantasma del film che poteva essere e concretizzandosi invece in una forma molto più estrema e radicale, una versione in cui l’immaginario psicanalitico e/o orrorifico evocati dalla cantina vengono fatti implodere dall’interno, decostruiti da un senso di morte che domina su ogni cosa. Animato dai dolenti occhi di William Hurt – splendida prova d’attore la sua – Jacques è infatti un personaggio che si ammala del proprio lutto, che si lascia contagiare da una morte che non è riuscito a superare facendosi trasformare egli stesso in un morto vivente, inabile a vivere sulla superficie e intenzionato a concludere la propria parabola in quella cantina. C’è un momento preciso nel film in cui avviene questo scarto, ovvero il passaggio in cui Jacques – deciso a non tornare a casa – si trasferisce definitivamente nei sotterranei della famiglia di Mado; ed è esattamente qui che la Bonnaire compie uno passo fondamentale alla riuscita dell’opera, non esasperando il tema ossessivo e morboso del rapporto tra i due bensì declinando in una nuova direzione l’atto d’impossessarsi della cantina da parte di Jacques, a cui pare non interessare più il bambino ma solo morire. Del resto ad anticipare tutto ciò c’è la decisione da parte dell’uomo di lasciare tutto al bambino, come se una parte di sé si fosse resa conto dell’infezione mortuaria e avesse deciso di assecondarla votando ad elezione della propria fine quel luogo sotterraneo.