L'uomo con la lanterna
Anni venti: un bancario sardo viene trasferito in Cina per lavorare come funzionario a Tientsin e a Shangai. Quasi un secolo dopo, la nipote ripercorre e racconta la sua vita avventurosa.
Vincitore del Premio Corso Salani al 29° Trieste Film Festival, L’uomo con la lanterna è un fantasioso viaggio nella memoria composto da filmati d’archivio, filmini familiari, fotografie d’epoca e tutto un insieme di souvenir, soprammobili e ninnoli che – dopo essere stati a lungo relegati in una soffitta - si animano finalmente di vita propria (grazie alla stop motion) per raccontare l’avventurosa e insolita storia di Mario Garau, bancario sardo che a metà degli anni venti venne distaccato in Cina dal Credito Italiano per lavorare come funzionario della Italian Bank of China nelle sedi di Tientsin e Shanghai.
La regista Francesca Lixi, anche sceneggiatrice del film assieme allo scrittore Wu Ming 2 (Giovanni Cattabriga), è la nipote del protagonista di questo documentario fiabesco e ispirato, che procede con dolcezza e levità utilizzando filmati e immagini come infinite tessere di un puzzle che, man mano che viene composto, si rivela sempre più ingannevole e misterioso. Chi era Mario Garau? Un intrepido avventuriero? Un donnaiolo, un romantico che ha viaggiato in lungo e in largo per amore? Oppure un uomo sensibile, chiuso in se stesso, incline alla depressone? O addirittura una spia?
“L’uomo con la lanterna” del titolo altro non è che la metafora del tentativo di far luce, dove possibile, sulla vita e sul sentire dell’altro che ci è a fianco, l’altro verso cui essere riconoscenti e assieme ri-conoscersi come in uno specchio. E’ in virtù di questo principio di empatia che la regista si è lasciata affascinare e ossessionare dalla figura sfuggente e intrigante di questo zio che non ha mai conosciuto di persona, lo zio di cui in famiglia si parla a bassa voce, la cui costante e silenziosa presenza/assenza passa attraverso tutti gli oggetti, le lettere e le cartoline spediti - nel corso degli anni - dalla Cina, mondo lontanissimo e forse magico agli occhi curiosi e sognanti di una bambina.
Prima di prendere definitivamente le sembianze del documentario – un “documentario di creazione”, garbatamente ibrido e sconfinante – l’indagine ostinata della giovane Francesca Lixi, non ancora regista, era stata un possibile progetto fotografico/editoriale, un’ipotesi di racconto e infine un testo pubblicato a puntate su una rivista web. Una ricerca lunga, complessa e creativa, che aveva compreso anche un viaggio in Cina sulle orme dello zio, con tanto di filmini in Super8 girati con perizia e passione e poi andati rovinosamente perduti. Episodio, questo, che evidentemente non ha scoraggiato l’autrice, che ha scelto poi di tornare alla sua storia prediletta per raccontarla con il medium che meglio le si accordava. Perché attraverso un linguaggio semplice, diretto ed essenziale la regista ribadisce e riconferma il potere eternizzante del cinema, la sua valenza primaria, che precede il suo potenziale affabulatorio – tuttavia non disdegnato in questo documentario che è anche favola esotica – e consiste, in un certo senso, nel poter miracolosamente sottrarre la vita al logorio inarrestabile del tempo. Cinema-memoria dunque, cinema-archivio che ci fa rivivere luoghi ed epoche perdute restituendole nella dimensione del viaggio, sempre in divenire, sempre aperta all’imprevedibile. Cinema che è anche occasione per interrogarsi, infine, sulla sostanziale imponderabilità del reale, che qui prende forma in tutta la sua fervida contraddittorietà.