Speciale MUBI / Sitcom - La famiglia è simpatica
Lo scherzo del giovane Ozon, un divertissement acido e sfacciato segnato dai colori assoluti delle sitcom e intimamente citazionista.
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini.
Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
Sitcom, ovvero Situation Comedy. François Ozon manovra l’archetipo per il suo esordio al lungometraggio del 1998, che non va però confuso con l’inizio dell’esperienza pellicolare: i cortometraggi del francese sono parte integrante della sua opera, ne anticipano i temi e in alcuni casi ne rappresentano perfino la quintessenza, come accade per il suo capolavoro breve, Une robe d’été (1996) che gira poco prima di questo film. A 31 anni il giovane Ozon impugna la cinepresa, scrive e dirige Sitcom, con pochi soldi e una durata di 85 minuti: lo fa con l’amica Marina de Van nella parte di Sophie, già attrice nel corto Regarde le mer e futura grande regista sconosciuta, per esempio dell’epocale Dans ma peau (2002) che riscrive l’apprendistato ozoniano incrociandolo con Cronenberg. Nel ruolo della madre c’è Évelyne Dandry, che vince il premio come miglior attrice al Festival di Sitges 1998, primo riconoscimento internazionale della filmografia ozoniana. Per il resto il regista recluta piccoli attori amici, come Stéphane Rideau e Adrien de Van, fratello di Marina nella vita e nella finzione, insieme a volti più noti della cinematografia francofona come François Marthouret (il padre) che danno fiducia all’autore.
È una parodia, Sitcom. Composta da un unico canovaccio: c’è una perfetta famiglia borghese che viene completamente sconvolta dall’arrivo di un roditore. L’animale, un topo bianco dagli occhi rossi chiaramente posticcio, funge da grimaldello per far deflagrare il non detto, ossia smascherare la reale natura del nucleo apparentemente idilliaco. Prima di questo, però, c’è un tendaggio: il cinema lungo di Ozon inizia infatti con un sipario che si apre, denunciando da subito la sua natura di rappresentazione e riflessione sulla messa in scena, sul topos e lo stereotipo. Ma c’è di più: dopo questa immagine generatrice ascoltiamo una strage di famiglia, un padre che apre il fuoco sui parenti ma fuori campo, lasciando la sostanza del fatto solo al nostro udito. Può sembrare la classica struttura ad anello, con inizio e finale circolare e in mezzo la storia evocata in flashback, ma non è così: si scoprirà poi che l’inizio (la strage) è un momento sognato da un personaggio, non un “vero” evento, e dunque la sequenza del massacro domestico non esiste nel racconto. Il cinema ozoniano inizia con un sipario e un inganno. Ozon vuole giocare.
Da qui si sviluppa un divertissement acido e sfacciato, segnato dai colori assoluti delle sitcom televisive (il maglione rosa della mamma, il verde acceso di Sophie) e intimamente citazionista: è il Teorema di Ozon, certo, come molta critica lo ha definito – ma sarebbe più giusto dire la parodia di Teorema, la sua messa in satira. E non basta, perché dentro ci sono tracce di Indovina chi viene a cena? con il personaggio di Abdu interpretato da Jules-Emmanuel Eyoum Deido, fidanzato nero della figlia che si presenta a casa dei genitori e resta vittima del discorso post-coloniale della borghesia quando, a tavola a bocca piena, i francesi perbene dissertano sugli Stati africani di cui sbagliano la collocazione. Ma Abdu è anche omosessuale e seduce il figlio Nicolas, in un altro sabotaggio dello stereotipo che costringe lo spettatore a un ulteriore riposizionamento nei confronti delle figure sulla scena. C’è il tiro al bersaglio antiborghese, figlio di Buñuel non solo tematicamente e in alcune scelte di stile, per esempio nell’utilizzo narrativo del sogno come concretizzazione di un inconscio mostruoso. E c’è l’ombra di Rainer Werner Fassbinder, amato da Ozon che adatterà un suo soggetto in Gocce d’acqua su pietre roventi (2000), ma già qui emerge l’interno borghese marchiato dal rapporto tra dominanti e dominati e avvolto in un’atmosfera queer, in una sessualità fluida che può sempre svoltare verso l’orgia e l’incesto. Nella famiglia di Sitcom vivono poi gli elementi che si svilupperanno nel successivo cinema ozoniano: la differenza tra l’immagine e la realtà, che porta spesso alla confusione dei piani che si conclude con la sconfitta del reale e la vittoria della superficie; la scoperta dell’omosessualità che squarcia il velo borghese; i contrasti psicologici nascosti tra amanti, amici e vicini. Non a caso alcuni titoli successivi riscrivono stralci di Sitcom: le “belle statuine” di Potiche non sono forse contenute nelle porcellane di questa borghesia? E l’irruzione del fantastico nel reale come forma di rivelazione, non avviene forse anche in Ricky, il bambino con le ali è così diverso dal finto roditore? E la lettura politica, la sessualità libera che spacca lo schema normato dei sessi, non si ritrova forse nel film più politico di Ozon, Una nuova amica?
Nell’epoca pre-social Ozon già sapeva che la propria immagine precostruita è sempre falsa, che l’autoscrittura di sé non regge: basta un topolino per ribaltarla. Ecco perché Sitcom è eccessivo, sovraccarico e anche troppo stravagante: si risolve in ultima istanza in un grande scherzo, una beffa del giovane Ozon che sta tra John Waters e la Troma (attenzione al topo gigante). Ma ecco perché, al tempo stesso, è un film pieno di talento che col senno di poi racconta la nascita di un autore centrale nel cinema contemporaneo: un azzardo che non si ripeterà, nel successivo Amanti criminali (1999) Ozon già diventa più “serio” e struggente, già draga i sentimenti e straccia i cuori. Ma Sitcom è rimasto: lo sa bene Dominik Moll che nel 2005 girò Lemming – Due volte lei, la storia di una coppia che viene terremotata da un roditore infilato nel tubo di scarico della cucina. Vi ricorda qualcosa? Che Moll abbia visto Ozon non è provato, naturalmente, ma è anche un’intima certezza.
Nota a margine personale. Il primo film che ho visto a un festival è stato 5x2 di François Ozon, in concorso a Venezia 2004. A costo di retorica, ricordo benissimo l’emozione (sì, l’emozione) di entrare a diciannove anni nella sala del Lido per godere di un titolo che ancora oggi adoro, così come ricordo l’ovazione a fine proiezione per Ozon e Valeria Bruni Tedeschi. Ho rivisto Sitcom su MUBI, una piattaforma, la migliore italiana: ebbene l’autore è lo stesso, ma lo schermo di casa è il contrario del festival. È il suo negativo. E in mezzo? In mezzo c’è la sala cinematografica. Al tempo del Lockdown, delle sale chiuse e dei film visti sul cellulare, è sempre più urgente tornarci. La ricchezza di MUBI conferma paradossalmente la necessità di spegnere altri schermi, rientrare in quel luogo chiamato cinema e spalancare gli occhi. Sempre restando ozoniani.