Gente dei bagni
Dentro un habitat, povero ed umano, in via d'estinzione
«Qualcuno ha lasciato la luna nel bagno, accesa soltanto a metà, quel poco che mi basta per contare i caduti, stupirmi della loro fragilità»
Fabrizio De Andrè – Al ballo mascherato
Con silenziosa discrezione Gente dei Bagni, documentario di Stefania Bona e Francesca Scalisi, rischiara e racconta un non-luogo promiscuo di solidale povertà e rabbia: i bagni pubblici municipali della città di Torino. Premiato dalla giuria sia al ViaEmiliaDocFest che al Mediterraneo Video Festival, oltre ad aver ricevuto il premio come miglior film documentario italiano al Riff, il lavoro del duo registico è un’intensa quanto misurata opera di solidale partecipazione, regalando uno sguardo dal di dentro di un luogo dove nessuno vuole volgere lo sguardo. Tra le gente dei bagni c’è l’Italia intera, o meglio, la parte che si nasconde (o che è nascosta) allo sguardo comune e diffuso, le registe raccontano i transiti delle non-persone (sociali) che hanno il bisogno di ricordarsi vive guardandosi allo specchio, lavando il proprio corpo, defecando o urinando. E’ storia di tubi e caldaie, di culture differenti che si mescolano nel disagio che tra quattro mura di mattoni rossi, si racconta. E’ storia di capelli e pettini, di spazzole e lamette, di cappelli, di buoni scaduti ed ammoniaca per pulire il piastrellato calpestato. Un microcosmo dal basso che si unisce, si gestisce, si pulisce, dalla mattina all’orario di chiusura; una stazione per disperati o per turisti, per gli esclusi dallo stato sociale, per chi vive di vagabondaggio o chi di lavoro salariato, come gli impiegati che lo gestiscono, percorsi umani che nel bisogno fisiologico si incontrano e si scontrano, generando storie vere su visi rugosi, in discorsi e preconcetti, tra identità stanche di un’Italia nascosta. Buste di plastica e vestiti usati, storie fragili di caduti verso il basso della categoria sociale. Giovani, vecchi, bambini che giocano, tutti ricordano e tutti esistono, tutti puliscono il proprio corpo, si riassettano, si asciugano, dimenticano.
Alle due registe non serve interferire troppo con il narrato, volgerlo a loro piacimento, il loro punto di vista è totalmente orizzontale, alto quanto l’altezza delle persone intervistate, e quindi non indugia – giustamente - sulla commiserazione o sul pietismo patetico, non si introduce nelle stanze come voyeur, no, aspetta fuori e lascia che siano le persone a raccontarsi senza intromettersi e forzare la mano o le serrature della privacy. Punto di vista oggettivo e privo di sottolineature arbitrarie che si indirizza verso un’empatia di carattere umano, scevra dal bigottismo ideale e reale su quel luogo, deputato al racconto, che gli osservatori normali e fortunati non lo guardano oltrepassandolo; un’osservazione chiara e trasparente indirizzata verso un luogo – consciamente o inconsciamente - dimenticato dal passante. Uno di quei pochissimi esempi – azzeccati - di cinema documentario impersonale, giustamente espositivo, che descrive un habitat di vita umana ed urbana da salvaguardare, in perenne precarietà tanto quanto le esistenze che lo transitano.
Anche la musica di Matteo Castellano – e di Sol Ruiz nel brano Via Brizè - racconta, attraverso i testi cantautoriali ed attraverso la musicalità folk d’accompagnamento, le identità di umanità finali e terminali che, quotidianamente, cercano di sopravvivere in un limbo di disperazione ed inconsistenza sociale, aggiungendo così un valore cantato alla narrazione, una sfumatura di sintesi musicale per le immagini rappresentate.
Tra gli esclusi dallo Stato e dalla massa sociale, tra gli stranieri, tra la gente dei bagni.