Godard, o la mano che cancella
Una ricognizione nei "pentimenti" di Jean-Luc Godard, l'ultimo pensatore della crisi del cinema
Spesso si dice che il vero pensatore è quello che pensa un unico pensiero. Forse però, a guardar bene, si dovrebbe dire che il vero pensatore è quello in grado di pentirsi. Jean-Luc Godard, per esempio, ha pensato sempre un unico pensiero (“giusto un’immagine”) proprio attraverso il rinforzo argomentativo di continui “pentimenti”.
Chiunque guardi in retrospettiva la sua eterogenea filmografia non fatica ad accorgersi della loro esistenza: come altro chiamare l’annuncio della “fine del cinema” su cui si chiude Weekend, o l’annullamento della propria grafia autoriale nei film fatti con il Gruppo Dziga Vertov nel maggio sessantottino, la modifica del proprio programma estetico annunciata con Numéro Deux (già dal titolo un programmatico nuovo film d’esordio) o ancora lo sperimentalismo dell’ultimo periodo digitale, se non come dei ripensamenti della forma (del proprio) cinema? Anche se è luogo critico diffuso assegnare all’ideologia il movente esclusivo di questi cambiamenti, con l’espressione “pentimento” non si intende un ripensamento di tipo politico (e men che meno morale) sul proprio operato, bensì un ripensamento estetico, legato (per definizione di gergo pittorico) al “cambiamento in corso d’opera di un elemento della figurazione”. Non sono molti i casi nella storia della cultura in cui un artista ha contato su un “pentimento” per espandere le proprie possibilità espressive. Vengono in mente due su tutti: l’effetto ottico visibile nel Salvator Mundi di Antonello da Messina - in cui una lieve correzione tra le velature di pittura accende la mano del Cristo benedicente (prima messa di traverso e poi ruotata in posizione frontale), producendo un movimento impossibile che sfonda lo spazio pittorico e tocca quello esterno al dipinto – e la visione dei quadri di Cézanne per Rilke (figure frequentemente citate nei film del regista).
Proprio in quest’ultimo episodio rilkiano è possibile riconoscere un prodromo del ripensamento godardiano.
Quando si apprestava a vedere per la prima volta i quadri del post-impressionista, Rilke era talmente in controllo nella gestione del linguaggio da pensare di riconoscere in qualsiasi oggetto una volontà di sottomissione alla sua lingua: “L’arte è il desiderio oscuro di tutte le cose”, scriveva nel 1898, “tutte vogliono essere immagini dei nostri segreti, vogliono essere ciò che riteniamo esse siano. Riconoscenti e sottomesse, vogliono portare i nuovi nomi di cui l’artista fa loro dono. Questo è il richiamo che l’artista percepisce: il desiderio delle cose di essere la sua lingua”. La visione di Cézanne spazza via questo punto di vista, sconvolge Rilke al punto da fargli accettare il rischio di smettere di scrivere per ricostruire da zero il proprio stile poetico. L’immagine di Cézanne lo zittisce: “Si nota anche ogni volta di più, quanto fosse necessario superare anche l’amore: è naturale amare ciascuna di queste cose…ma se lo si mostra si fa meno bene; la si giudica anziché dirla. Questo consumare l’amore in lavoro anonimo, da cui nascono le cose tanto pure, non è forse riuscito a nessuno con tanta perfezione come al Vecchio”; “come un cane Cezanne restava seduto là davanti e semplicemente guardava”. Antonello, Rilke e Godard hanno esperito in diversi momenti della cultura l’effetto paradossalmente produttivo di un dubbio in merito all’utilizzo della propria straordinaria potenza formale.
È stato l’incontro con la verità, o meglio, con la possibilità di intercettare la verità, ad innescare questo dubbio. Se per il pittore si trattava del l’assoluta atemporalità del messaggio cristico – da rendere pittoricamente con uno scorcio in grado di fendere le distanze spaziali e compattare i tempi in un istante presente – e per il poeta dell’assoluta alterità delle cose - autonome al di fuori di ogni linguaggio e quindi da rappresentare in un poetare sempre meno legato all’appropriazione e sempre più vicino all’esperienza del ritegno -, per Godard la verità è sempre coincisa con l’esistenza di qualcosa nella struttura dell’immagine capace di sfuggire al destino di annullamento condiviso da tutta la realtà; qualcosa in grado di contraddire la legge di nientificazione responsabile della dissipazione continua dell’orizzonte sensoriale; qualcosa di simile, nella tensione sempre oscillante tra la presenza e l’assenza, tra la carica sorgiva dell’apparire e la inquietudine irrimediabile verso lo scomparire, a una salvezza fuori tempo massimo. Intorno a questa località salvifica promessa dall’immagine, o meglio, costituita dall’immagine - già da sempre (“il cinema non è una tecnica e nemmeno un’arte…è l’infanzia dell’arte”), in sé stessa, segno testimoniale della verità, “splendore del vero”- i tentativi di figurazione godardiani si sono sempre orientati fallacemente, in un continuo moto centripeto pienamente utopico e perennemente in crisi (e proprio non c’è forse niente di meglio del termine crisi per definire la totalità della figurazione godardiana). Godard non si è però mai fatto atterrire da questo stato di crisi, anzi: a differenza dell’audiovisivo contemporaneo – operatore intenzionato a disporre le proprie forze nella traduzione della totalità dell’esistente in un regime di piena esauriente visibilità –, ha compreso a fondo l’impossibilità di risolvere l’impasse linguistica attraverso gli strumenti positivi convenzionali (“l’immagine del totale non è la totalità delle immagine”) e per questo ha capitalizzato la crisi, riconoscendo in essa, cioè nel negativo della propria espressione (quel negativo che “ci tocca ancora fare, perché il positivo ci è già stato dato”), l’unico luogo per incontrare quella verità incapace di arrendersi allo svanire di tutto.
La risignificazione del negativo è lampante nelle Histoire(s) du cinéma, la più grande dichiarazione di crisi della forma organizzata da Godard – opera vicina a una produzione di significato per pentimenti (non sembrano forse velature di pittura sempre ricontraddette quelle immagini in continua sovrimpressione, quei fantasmi in continuo lampeggio?), e per labirinti (era già forse quello uno spazio-tempo che demoralizzava gli ordinati percorsi museali del cinema che oggi sono diventati il programma di tutte le immagini dell’audiovisivo?). È proprio lì che ricorre una frase sibillina, rubata a Meister Eckhart: “Solo la mano che cancella può scrivere”. Che è come dire: solo riconoscendo il linguaggio come luogo di una crisi più che come occasione di un’espressione, si può pensare di dire qualcosa, o meglio, si può pensare di dire qualcosa di vero. Solo nel continuo ripensamento dell’espressione, solo nella cancellazione del discorso, solo nella crisi del linguaggio e mai in nessun altro luogo (in questo Godard sta tra Pascal e Wittgenstein, i due pensatori della crisi come occasione di rivelazione mistica) l’immagine appare vicino all’idealità salvifica a cui è associata: è attraverso l’azzeramento dei codici narrativi e referenziali, o meglio, il riconoscimento della loro inutilità, che l’immagine trova infatti una ragion d’essere fondata esclusivamente sulla propria presenza oggettuale, sulla propria esistenza fisica. Nelle Histoire(s) la carica di verità della rappresentazione non è però ottenuta solo grazie a questo azzeramento, ma anche attraverso un delicato processo argomentativo, in cui Godard mostra esplicitamente la possibilità culturale di un’immagine vera (e quindi la possibilità di dire potenzialmente la verità su tutto in immagine) attraverso la raffigurazione dell’evento irrappresentabile per antonomasia.
Se infatti nella prima fase dei suoi lavori, Godard mostrava in negativo la possibilità di produrre un’immagine vera associando l’esistenza di un indicibile a figure luttuose, a presenze mortifere, contro cui far scontrare, come in un pulviscolo gravitazionale, immagini-atomo strappate da codici cinematografici precedenti e risignificate in un crescendo sempre più vitale (affermando così sempre una vittoria dell’esistenza sul nulla), nella fase matura della sua carriera ha direttamente individuato il negativo su cui lavorare nel grande vuoto di visibilità del 900 e quindi nell’evento della Shoah. L’esistenza storica dello sterminio è occasione di crisi per la rappresentazione interessata allo splendore del vero non perché chiede di interrogarsi sulla legittimità etica della rappresentazione (sull’esistenza della possibilità poetica dopo Auschwitz Paul Celan ha detto quanto c’era da dire) ma perché interroga se quell’evento si possa raffigurare in un’immagine capace di reggere il cortocircuito esistenziale costitutivo di quel fatto: è l’immagine ontologicamente attrezzata per rendere conto della verità dell’assoluto destino di annullamento in cui versa la realtà tutta? Per rispondere a questa domanda Godard capitola sulla figura cristica non per scelta religiosa, ma per attestazione culturale: nella cultura cristiana, a differenza di quella ebraica o platonica, l’immagine è dotata di assoluta pienezza ontologica e quindi di straordinaria potenza di verità perché nella dottrina trinitaria il figlio è considerato vera e propria immagine generata dal padre secondo un atto di filiazione interna e non di riproduzione esterna – non a caso anche l’ente creaturale si dà propriamente “a sua immagine”). Le molteplici figure cristiche e mariane che puntellano come un’ossessione ritornante la filmografia del regista francese si istanziano quindi come punto di fuga concettuale del discorso sulla possibilità dell’immagine vera: è nel mistero del corpo incarnato di Cristo (“è Cristo uomo o immagine di uomo? è l’uomo in immagine reale o la finzione di un uomo?” borbotta il regista nei primi episodi delle Histoires) che si dà un a priori definitivo (“l’immagine verrà al tempo della resurrezione”) e quindi si garantisce l’esistenza di un programma di verità per l’immagine.
Godard quindi non si chiede se sia etico poter vedere quanto accaduto nello sterminio, si chiede piuttosto come mai il cinema, unica traccia possibile per ragioni ontologiche, non abbia ottemperato al suo dovere di rappresentazione (“Non si sono filmati i campi di concentramento, non li si sono voluti mostrare, o non li si sono voluti vedere. […] E tutto è finito, il cinema si è fermato lì. Le intuizioni del cinema – che poteva averne perché filmava le cose, era uno sguardo – sono state ignorate o si è voluto capirle diversamente. Poi il cinema non ha più potuto farlo”): siccome la verità si può dire solo in immagine, proprio in immagine deve essere espresso l’indicibile. Solo le immagini possono mostrare quello che è accaduto, solo le immagini, in quanto “splendore del vero”, possono trasformare in luce memoriale (“il cinema permette ad Orfeo di voltarsi senza far morire Euridice”) anche il buio della notte più profonda, il “nero dei nostri tempi”. Non si tratta ovviamente dei prodotti dalla piena visibilità senza crisi dell’audiovisivo e neanche dei contenuti del cinema più inconsapevole: si tratta piuttosto di quelle immagini generate dal “pentimento” sopra descritto, che hanno interpretato la crisi generata dall’incontro con la verità possibile come un’occasione di trasformazione per la propria espressione – nello specifico trasformazione da segno, costretto a un significato simbolico, a oggetto, libero di essere evento; quelle immagini, in ultima analisi, proprie di un cinema che è uscito dal cinema dando addio al linguaggio e alle sue conformazioni positive per tentare di salvare qualcosa di vero nel tempo.
Ora che Godard non potrà più produrre immagini, ci sarà semplicemente meno verità.