The Good Intentions
Con la sua opera prima Beatrice Segolini torna alla casa di famiglia per affrontare i traumi del passato e tracciare le coordinate di una situazione che supera la dimensione biografica.
Non si esce vivi dall’adolescenza. Nel caso di Beatrice Segolini, poi, i guai cominciano dall’infanzia. Già vincitrice al Molise Cinema e al SalinaDocFest, la giovane film-maker e montatrice bresciana presenta a Visioni Fuori Raccordo il saggio di diploma della Zelig, la scuola di cinema documentario di Bolzano. Seguita dall’operatore e co-regista Maximilian Schlehuber, la ragazza è tornata a casa per affrontare con i familiari il tabù della violenta severità con cui il padre Paolo, ex asso dell’equitazione, ha cresciuto lei e i due fratelli maggiori.
The good intentions è un film esplosivo.
Stefano e Michele sono bravi a basket e si fanno notare nel circuito locale. Beatrice assiste ogni giorno agli allenamenti. Gli anni passano, la ragazza ha diciassette anni e una sera suo padre esagera, in un gravissimo raptus di violenza. Questo l’antefatto, raccontato dall’autrice attraverso una bambolina (lei stessa) e altri animali-giocattolo in un teatrino orchestrato a mano. “Sono passati sette anni e questa storia non è ancora completa”, recita la sua voce narrante nel breve prologo.
La macchina da presa si muove tra la cucina e il salotto di casa Segolini, dove vivono la madre e i fratelli. Poi Max segue Michele, studente di ingegneria, nella scuderia dove vive e lavora Paolo, catturando le conversazioni. E poi i dialoghi tra Beatrice e Stefano, quelli tra la ragazza e il padre quando finalmente va a trovarlo, e infine la lite a cena, ancora a casa della madre, quando si tirano le somme di un’infanzia difficile per colpa dei metodi educativi di un uomo inflessibile. In mezzo alle scene, specialmente nella prima parte, scorrono le immagini di vecchi filmini che riprendono i tre fratelli da piccoli sovrascritte dalle partite di pallacanestro.
C’era il rischio che una simile, rischiosissima avventura, potesse risultare inutilmente solipsistica. La Segolini, invece, ha capito quanto la sua famiglia fosse perfetta per raccontare un modello universale di educazione disfunzionale. La rassegnata diplomazia della madre, l’implacabile incapacità di confrontarsi del fratello più grande, i goffi tentativi di dare ragione a tutti di Michele e la tragicità di un uomo-eremita diviso tra un senso di colpa confuso e la rivendicazione di divieti, sberle e punizioni sono un affresco straordinario in cui è più facile riconoscersi di quanto si possa immaginare.
Le domande di Beatrice, tutte molto semplici – “che ne pensi?”, “come ti senti?”, “come ti sentivi?”, “riesci a capire come mi sentivo io?” – riescono a riportare a galla un passato ampiamente diffuso, non solo in Italia, che nella maggioranza dei casi ha finito per provocare la stessa silenziosa incomunicabilità che affligge i suoi familiari. E allora, avvolti da uno spirito del tempo che ritarda cronicamente le età della vita, The good intentions (quelle di un padre che ha imposto la sua visione del mondo padronale a fin di bene, ma anche quelle di una figlia che tenta di far dialogare davvero, per la prima volta, la sua famiglia) è un’opera che parla irriducibilmente di adolescenza, prima mostrandone attraverso i ricordi tutti i dolori, le difficoltà e i sensi di colpa immotivati, poi mettendoli letteralmente in scena (la cena dell’incandescente finale) per dimostrare che nulla è risolto e che anzi le conseguenze e le ferite di anni di conflitti sono più visibili e sanguinanti che mai.