The Good Place

Mike Schur interroga sul presente i classici della Storia della Filosofia Morale, nel contesto di una delle narrazioni seriali più avvincenti e coraggiose degli ultimi anni.

Come fare Storia della Filosofia Morale senza che si presenti come una mera «galleria di opinioni» (secondo la formula di un certo filosofo tedesco) o senza che diventi un esercizio intellettuale sconnesso, in fondo, dai problemi pratici di tutti i giorni? Come parlare, oggi, in modo utile di deontologia o consequenzialismo? La risposta di Mike Schur è The Good Place, una serie televisiva in onda dall’autunno 2016 su NBC dove l’autore ci propone (senza, tuttavia, che la serie si riduca esclusivamente a questo) una sorta di rilettura in chiave comica e contemporanea delle più classiche riflessioni sull’etica.

La premessa è tanto semplice quanto potente: Eleanor Shellstrop (una credibilissima Kirsten Bell) è appena morta e si trova all’ingresso del “bel posto”, dove finiscono a passare l’eternità in beatitudine tutti coloro che si sono comportati bene sulla Terra. Eleanor è, però, lì per errore e un po’ per non farsi scoprire, un po’ per provare a guadagnarsi il suo posto nel good place prende lezioni di filosofia morale da un altro abitante del Posto, Chidi, professore accademico nella prima vita.

Prigioniero del fascino che la filosofia ha da sempre esercitato sull’arte, Schur sa bene, in compenso, che non è il compito della televisione in quanto forma di discorso rappresentativo quello di incastrarsi in speculazioni o in modi di procedere argomentativi; così si diverte, piuttosto, a mettere in scena con un’invidiabile libertà creativa le dottrine dei vari Kant e Kierkegaard, a capovolgerle, a spremerle per estrarne il potenziale comico e narrativo. Ed è proprio la comicità il filtro attraverso il quale la serie riflette sul discorso etico modellandosi, fra l’altro, su una certa forma tutta contemporanea di fare ironia, sviluppatosi fra social media e meme, sulla dottrina e sulla figura dell’intellettuale e su questioni di impronta esistenziale o metafisica. Motivo per cui non bisogna fermarsi ad una lettura superficiale che potrebbe vedere in The Good Place un insieme di pillole di filosofia per il grande pubblico, perché la scrittura di Schur è molto più intelligente di quel che potrebbe, a prima vista, sembrare. Di episodio in episodio vediamo l’autore rispondere con una buona dose di randomness a sistemi di valore o religiosi troppo stilizzati per neutralizzarli, o dare concretamente carattere al pensiero etico di turno condannando Chidi alle rigidità e alle dolorosissime ginnastiche mentali della deontologia, o facendo cadere su Michael tutta l’Angst che deriva dalla presa di coscienza della propria condizione di mortale.

The Good Place ha comunque capito che il discorso etico, lungi dall’essere un manuale di istruzioni pronto all’uso, è invece e soprattutto un luogo di riflessione sull’umano e le sue azioni, sul suo rapporto con se stesso e con l’Altro. Il percorso post mortem che, con l’avanzare degli avvicendamenti raccontati dalla serie, compie Eleaonor è senza dubbio un percorso di formazione e di crescita, esperienza dopo esperienza e riflessione dopo riflessione sulle esperienze fatte – una vera e propria educazione. La Storia della Filosofia Morale insegnata da Chidi nella casetta che divide con l’anima gemella nel Bel Posto ritorna finalmente, nel corso dello show, ad essere una filosofia pratica, il costume di interrogarsi ogni giorno sui margini di miglioramento della nostra persona e di chi ci sta intorno. In mezzo a tutto questo ironizzare e passare in rassegna le teorie dei più grandi filosofi del passato, Schur si assume comunque la responsabilità di prendere una posizione: l’uomo è un animale perfettibile: la morte lo coglie potenzialmente sempre troppo presto perché si possa dare un giudizio definitivo sulla sua condotta; l’uomo è un animale sociale: il circolo virtuoso che il legame tra umani può innescare, ciò che ci dobbiamo l’un l’altro (What We Owe to Each Other), è ciò che ci rende buoni e meritevoli della beatitudine eterna.

Se, dunque, per la costruzione di microcosmi estremamente ricchi e di personaggi amabilissimi ed esilaranti non ha nulla da invidiare ai precedenti lavori di Schur, quali The Office o Parks and Recreation, è sicuramente al Damon Lindelof di Lost e The Leftovers che The Good Place fa più riferimento dal punto di vista della concentrazione del discorso (certo, nei toni della commedia) sull’etica e sull’umano, e della costruzione del racconto secondo gli schemi della prova e della crescita.

Ma non finisce qui perché lo show di Schur è, in realtà, molto di più di una riuscita rilettura televisiva dell’etica: è comicità, è sperimentazione narrativa ai più alti livelli, è satira, è costruzione (e decostruzione al contempo) di un universo narrativo complesso e più che mai originale. Il tutto con la pazienza di chi si permette di far sorridere lo spettatore a ritroso, o dopo una una seconda visione ponendo la maggior parte del contrasto ironico fra il titolo stesso e la narrazione. La serie si dimostra, a più riprese, capace di sorprendere anche lo spettatore più lungimirante, di rimescolare le carte in tavola, di smentirsi e reinventarsi attraverso una narrazione estremamente ludica e spensierata ma in nessun momento frivola e, anzi, di gran lunga più solida di altre che fanno uso di strutture narrative più consolidate nel tempo. L’ultimo lavoro di Mike Schur possiede tutti i tratti delle opere artisticamente più mature: è un racconto che si presenta come immediato e leggero quando è, in realtà, frutto di una lunga ed esperta costruzione capace di far passare messaggi complessi e stratificati facendone materia ludica senza per questo sminuirli o appiattirli.

Autore: Irene De Togni
Pubblicato il 05/03/2018

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