Hard Living Kids, gli eroi di domani; questo il titolo dell’ennesimo, fa piacere sottolinearlo, buon documentario realizzato dalla sempre stimolante produzione della Zenit Arti Audiovisive, che affronta anche stavolta temi freschi e accattivanti, che ben resistono alle intemperie del tempo. Col termine intemperie vogliamo riferirci, in questo caso, all’anno di produzione, che si colloca indietro di dodici anni da oggi lungo le pagine del calendario: Hard Living Kids viene infatti girato all’alba del nuovo millennio, ovvero nell’anno 2000. Detto questo ci preme anche evidenziare come, al di là dei temi trattati che approfondiremo più avanti e che, come accennato in precedenza, risultano accattivanti e intrisi di interesse, l’opera di Zenit presenta anche alcune piccole note, di produzione e non, che vanno per dovere d’informazione, almeno elencate.
La prima di queste riguarda la regia, che in questo caso diventa “le regie”. Non è difatti singolo il nome che campeggia sotto la dicitura del director, bensì doppio, poiché Hard Living Kids viene girato dall’Italiano Davide Tosco (classe ’69) e dal Sudafricano John W. Fredericks (classe ’45). La seconda riguarda invece le numerose collaborazioni di cui Zenit si avvale in fase di produzione. Supportano infatti con la casa torinese, Kaos Film, TELE+(Italia), RTBF(Belgio), e Soros Foundation; con l’appoggio, inoltre, del programma Media dell’Unione Europea. Questi biglietti da visita, sono utili per ricordarci l’impegno Internazionale che Zenit si propone di coprire con le sue opere, che non si limitano al solo panorama Italiano, ma che spaziano invece tra vari paesi. E con questo documentario la Zenit spazia addirittura non già tra nazioni ma bensì tra continenti, poiché Hard Living Kids non viene girato nel Belpaese, ma in Sudafrica, tra le periferie di Città del Capo. Passando al film vero e proprio, vediamo subito come una didascalia ci accoglie all’inizio della visione, fornendoci le preziose informazioni essenziali su quelli che saranno i due protagonisti della storia, e sottolineando inoltre la materia centrale che andrà a toccare l’opera: ovvero il fenomeno delle gang giovanili in Sud Africa. Questo tema sociale, tanto delicato quanto brutale, ci viene proposto nel film in una maniera decisamente interessante, ovvero attraverso gli occhi di due ragazzi, Richie e Lester; due amici, due gangster (nel senso di appartenente a una gang) finiti in prigione per i loro crimini, e ad ormai pochi mesi dalla scarcerazione.
Il documentario si muove dunque seguendo i ragazzi nel periodo appena precedente la scarcerazione e in quello subito successivo, mostrandoci, ed è questo il fattore di maggior interesse, come due personalità della stessa estrazione sociale e dalle esperienze comuni reagiscano ai problemi in maniere molto diverse. La macchina da presa oscilla quindi con continuità tra i volti dei due ragazzi e il contesto nel quale sono cresciuti; ovvero le periferie, le baracche, le scuole, per aiutarci a comprendere maggiormente l’ambiente in cui un ragazzino di quelle zone nasce e cresce. Una crescita, questa, spesso con poche alternative, e ancor più spesso con nessuna; come sottolineano le immagini di innocui compassi sequestrati dagli agenti di polizia, onde evitare che i bambini si trafiggano a vicenda. Parecchie sono anche le pistole, che si vedono più d’una volta durante il corso del film, e sempre in mano a ragazzi più o meno giovani appartenenti alle gang. Lo scenario che emerge è desolante e degradante; i ragazzi delle gang se ne stanno tutto il giorno in strada senza far altro che fumare, drogarsi e giocare d’azzardo. Per tirare a campare i ragazzi urlano nella camera, e senza vergogna alcuna, di dover rubare, spacciare o peggio di dover uccidere.
Sono indubbiamente, questi, ragazzi soli e sbandati, abbandonati sia dallo stato che dalle autorità, che considerano oramai il problema delle gang giovanili come un fattore endemico della periferia e dei “ghetti”. Eppure dal documentario appare piuttosto chiaro che, senza aiuti esterni, questa triste realtà sarà impossibile a curarsi, e questo perché i ragazzi in primis spesso non si rendono conto della loro situazione critica e disagiata. A ragione vediamo come, nel bel mezzo della ripresa in una cella carceraria è possibile notare, con la dovuta attenzione, una brevissima ma sufficiente inquadratura che ci mostra gli idoli dei ragazzi immortalati in dei poster d’oltreoceano. Sopra questi brillano, con prepotente splendore, i numerosi “bling bling” (gioielli), delle due Rapstars Snoop Dogg. & 2pac Shakur che, portavoci dell’ormai consolidata cultura Gangsta Rap, rappresentano palesemente il modello e l’ideale da raggiungere (e scimmiottare) per questi ragazzi. Ragazzi che sono, come suggerito dalle forti e interessanti metafore visive del film, come dei cani in gabbia; rabbiosi e costretti in una piccola realtà senza via d’uscita. Da sottolineare a tal proposito l’ottimo lavoro di Marco Duretti (montaggio), che con ottime cadenze dona una marcia in più alle sopracitate metafore, amplificandone la resa. Un lavoro, quello del montaggio, che tuttavia non si esaurisce in piccoli episodi isolati, ma che si fa di nuovo visibile soprattutto nelle scene di gruppo delle gang, legate tra loro in maniera molto dinamica.
Tuttavia per tutto il film rimane comunque quella dei rabbiosi cani in gabbia la metafora più efficace e penetrante, che tra l’altro assurge perfettamente a paradigma dell’opera tutta: la prigione, e la “gang”, sono in fondo la medesima cosa; sono una gabbia. Se fai parte di una gang tutti diranno di esserti fratelli, ma poi, se decidi di abbandonare, cambiare vita, proprio loro minacceranno di ucciderti. In questo modo sei così costretto a rimanere schiacciato in quest’ingranaggio infernale, in cui gli unici sbocchi sono la morte, o la galera. Due esperienze, queste, che si affrontano per forza di cose da soli, e nelle quali non ci saranno più né amici, ne fratelli di sorta.