Heart of a Dog
Il film di Laurie Anderson è una sfrontata e personale opera di videoarte, divisa tra riflessioni universali e ripiegamenti privati.
E’ legittimo che i più rimangano spiazzati, infastiditi e interdetti, davanti a film come Heart of a Dog di Laurie Anderson, artista visiva, musicista e compagna di vita di Lou Reed, spirito indomito e selvaggio. E’ risaputa, dopotutto, la fatica che da sempre tocca in sorte al linguaggio della videoarte per accattivarsi l’interesse e l’attenzione del cosiddetto grande pubblico e quanto sforzo essa faccia ad imporre i propri strumenti espressivi, che di per sé dovrebbero essere considerati chiavi d’accesso alla libertà, alla creatività e alla composizione autonoma del senso di ciò che è visibile, più che lambiccamenti cervellotici e respingenti. Più spesso, invece, davanti alla sregolatezza propositiva di certi lavori, che abbracciano il mondo e i suoi molteplici stimoli senza vincoli e armature di nessun tipo, si storce il naso, ci si indispettisce, ci si rifiuta categoricamente di perdersi tra le maglie larghissime di operazione in cui allo spettatore, di pari passo con l’autonomia rivendicata dall’autore, si richiede un approccio soggettivo, che non subisca passivamente nessuna scelta espressiva ma le metta in discussione tutte, una a una, dalla più ispirata alla più gratuita, senza arrendersi alla presunta fissità di ciò che si vorrebbe presumere come oggettivo e immutabile.
Il film della Anderson, che della videoarte rivendica l’attenzione alla scrittura per immagini (la "cinegrafia", come la chiamano i maggiori esperti di videoarte in Italia, vedi alla voce Marco Maria Gazzano), alla produzione del senso su base empirica e soprattutto alla commistione tra linguaggi diversi, è dopotutto un magma audiovisivo nel quale è ovviamente impossibile arginare il flusso, mettere un punto fermo o anche solo rifarsi a un’idea tradizionale della punteggiatura e della grammatica filmica. Lo sguardo della regista è scriteriato, liquido, metamorfico, allo stesso distaccato e indulgente; parte dal particolare, ovvero la malattia del proprio cane Lollabelle, sintomo di un’istanza autobiografica scoperta e manifesta, per tendere all’universale, a una meditazione sulla vita avvolgente, che non si ponga barriere e che riparta dalla centralità del lavoro - artigianale, quasi sempre - sull’immagine per scoprire il mondo. Per confondersi con esso, per sparire dietro le proprie passioni e le tante, innumerevoli evocazioni di un’opera che accoglie indistintamente Wittgenstein (“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”) e David Foster Wallace, perché dopotutto "ogni storia d’amore è una storia di fantasmi" e non c’è più spazio per la concretezza dell’essere umano in un mondo controverso e ostico, che rinnega i sentimenti, spia il privato per mezzo delle riprese a circuito chiuso, s’incammina funereo verso la morte a forma di pixel.
A ventinove anni dall’ultimo Home of the Brave, nel quale compariva anche il celebre esponente della Beat Generation William S. Burroughs, Laurie Anderson gira il controcampo intimo di Adieu au langage 3D di Jean-Luc Godard, senza la furia iconoclasta e apocalittica dell’ultimo film del glorioso autore francese ma con una dose più marcata di indecifrabile nostalgia, che mostra il proprio tormento ma anche la propria buddista e atarassica serenità nel cercare degli ingressi dalla porta principale alla realtà, tali da renderla il meno dolorosa possibile, “sentendosi tristi senza in realtà essere tristi”, alla prese con una vita che “può essere capita solo andando indietro, ma va vissuta guardando avanti” (Kierkegaard). Un film su se stessa e su New York, quello della Anderson, sull’11/9 e sulla propria infanzia nell’Illinois, che si cimenta con tutto e il suo contrario, dal Super 8 alla morte dei lattanti in fase REM, dal Libro Tibetano dei Morti al “sentimento della sensualità del mondo”, senza cercare un’unità tematica ma saltando sul treno della suggestione generosa, dello stimolo a ripetizione, del contrasto e dell’ossimoro quale figure retoriche privilegiate per leggere il mondo (nostalgia e felicità, acqua e fuoco, terra e aria). E’ un caso che proprio quando decide di tirare in ballo tali contrapposizioni la Anderson vira le proprie immagini sul dorato (mutuato da certa arte bizantina vista da lei stessa nella Grande Mela), cercando un’armonia e uno splendore assente nella prosaicità delle sue riflessioni, tanto più preziosa quanto più utopica? Probabilmente no. Anche se davanti a film come Heart of a Dog si continuano ad avere solo domande e pochissime risposte.