Hey Guy! Intervista a Guy Portoghese

Il regista Enzo Piglionica sulle tracce di Guy Portoghese, appassionato interprete della scena musicale pugliese

Intervistatrice: Hai un sogno nel cassetto?

Guy Portoghese: No.

I. : Quindi non sogni?

G. P. : Si …

I. : E cosa sogni?

G. P. : Cassetti …!

I.: E perché non li apri?

G. P. : Sono timido!

I.: E come combatti la timidezza?

G. P. : … (sorriso beffardo)

Chi è Guy Portoghese, nome d’arte di un apprezzato compositore, cantante e sassofonista barese?

Forse il personaggio – protagonista che dà avvio alla propria docu-intervista, citando il codice dei samurai: “Le grandi imprese non si compiono da sobri!”. Guy, vitale animatore della scena jazzistica italiana, frontman del gruppo Guy e gli specialisti prima e dei The rock’n’roll Kamikazes poi.

“Guy da fuori? Penso all’apparenza un simpatico buontempone”, come egli stesso chiosa al termine, a ridosso dei titoli di coda.

Chi è Gaetano Portoghese? L’uomo, la personalità eclettica e carismatica. Forse l’artista, ideologo a modo proprio, che suggella l’intervista sancendo che “il Rock’n ‘roll è una cosa seria!”?.

“Guy “da dentro”? Bisognerebbe chiederlo a Guy!”, infine egli stesso conclude.

A mettersi sulle tracce di Guy Portoghese, appassionato interprete delle sonorità anglo-americane anni ‘50, prematuramente venuto a mancare nel 2012, è il regista bitontino Enzo Piglionica (finalista ai Nastri d’argento 2014), il quale proprio ripercorrendo lampi e tracce di pensiero, disseminati tra album di famiglia e materiali d’archivio, cerca di illustrare e restituire il più intenso ritratto del musicista. Il profilo non può che prendere le mosse dal nome che è dell’uomo già un programma, un progetto esistenziale. "Guy" nello slang è sia sostantivo che rimanda a “ragazzo”, che verbo per esprimere “canzonare, caricaturare”.

E Guy Portoghese personifica sul grande schermo proprio questa stessa simbiosi semantica: una sconfinata, scanzonata giovinezza. Disinvolto, anticonformista, acutamente ironico, pronto nel giocare con le parole, mai banale nell’improvvisazione scenica, di Guy è quasi impossibile non cogliere sin da subito l’immensa umiltà che sottende l’entusiasmo a fior di pelle. Piglionica sceglie programmaticamente di girare in bianco e nero l’intervista individuale, che frammentata, cadenza il film in ben 10 capitoli, per associare esclusivamente il colore alla musica, alle performances di repertorio, al backstage. Nell’ inquadratura circoscritta, su una parete di mattoni si staglia, affisso di sbieco, un calendario zeppo di annotazioni, a segnalarci il momento.

E’ Novembre 2010 quando il regista, al lavoro su ben altro progetto, raccoglieva la testimonianza artistica di Portoghese (rielaborata poi solo in seguito nel doc Hey Guy!) lasciando che il suo obiettivo ne captasse l’essenza fotogenica, mettesse appunto “in luce” quell’intimo bagliore magico affettivo, che irradia dal soggetto in posa: l’anima che s’affaccia alla finestra del viso - per parafrasare gli studi antropologici sulla fotografia di Edgar Morin. La passione è tutta nello sguardo, folgorante, gioioso, pur se fugace, sfuggente. Trabocca dagli occhi il sorriso beffardo di Guy a rompere il silenzio e lasciare finalmente il campo all’attacco di sax, tastiera e batteria sui titoli di testa. Spaziando tra immagini e ricordi, Guy ricostruisce l’eterogeneità delle influenze musicali che lo hanno segnato sin dall’infanzia al seguito dei fratelli maggiori e con fierezza e dignità riporta alla mente l’audacia che, poco più che vent’enne, lo spinse a lasciare Bari per “salvarsi” dalla morsa della droga, alla volta di Londra. Verso la svolta. Verso quel se stesso che sarebbe diventato con un sax tra le mani: un “indisciplinato” schermato dalla musica.

Tornato “immune alla realtà di Bari”, realtà immutata, Guy ha sempre guardato con tenerezza e certa nostalgia alla propria città e alle sue contraddizioni. Al crocevia musicale internazionale quale era negli anni ‘80 e alla vetrina metropolitana, specchietto per le allodole, quale è ora, che falsa la visione più veritiera della città, la periferia, cuore pulsante. Al centro della visione di Guy, la gente, i vicini di quartiere, l’umanità brulicante a cui si approccia con ironia, per stemperare la rabbia. Quella umanità che si adagia, omologa sull’avere e apparire, che non sa avvedersi delle piccole, preziose, libertà quotidiane, quelle che ancora possono preservare la personalità come risorsa, sovente svenduta e sacrificata sull’altare del più futile consumismo.

Intervista nell’intervista, ricordo nel ricordo, avvincono, tra le riprese tratte dall’archivio professionale e personale dell’artista, i momenti che lo ri-vedono in coppia con la compagna Patrizia Piarulli, in arte Misspia, nota Dj Vintage. Il divertimento e le risa contagiose, scaturite dai racconti e dalle scenette rubate alla vita, lasciano intendere un sodalizio molto più che sentimentale. Una sorta di destino compiutosi non già nel (ri)trovarsi, ma di più nel condividere di questa vita i sogni.

Il viaggio in auto di Guy e Patrizia (riprodotto in Super 8) per raggiungere il concerto di uno degli idoli di Guy, Chuck Berry, tra i padri del rock’n’roll, pare quasi l’epilogo di un film, il film del sogno che Guy realizza, e dopo il quale prende ad affrontare la vita realmente con quella consapevole, “sostenibile” leggerezza ed autoironia, che sottesa nei suoi testi, invita a ritagliarsi una spensierata riflessione prima del senno di poi, a saper ridimensionare le sventure per potersene arricchire per tempo.

Un atto liberatorio, emozionale, che per Guy è indissolubilmente insito nella musica, qualsiasi ne sia l’entità che il musicista decide di prendersi in carico. Si tratti del pianista di un piano bar, come del direttore d’orchestra.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 21/12/2014

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