House of Gucci e Diabolik. Worlds apart
Due mondi a parte che sfidano lo sguardo contemporaneo. Il destino comune di due film fuori tempo e luogo.
A prima vista non hanno nulla in comune, House of Gucci di Ridley Scott e Diabolik di Marco e Antonio Manetti. Certo, riportano l'identica data di uscita italiana: 16 dicembre 2021. Ma non significa niente. A volte, però, alcuni film sono legati da uno stesso destino, segnati da una ragione condivisa che esce dallo schermo ed entra nel mondo intorno, nel campo della percezione, nell’impressione che resta nell’occhio. In questo caso l’insospettabile punto di contatto è la costruzione di un mondo a parte.
Ridley Scott, in House of Gucci, allestisce la nota parabola della casa di moda attraverso l’autofagia di una famiglia: un nucleo che si mangia da solo, si divora come in un contrappasso dantesco per scontare la ricchezza e il successo. E lo fa chiudendo la storia in una bolla: Adam Driver/Maurizio Gucci e Lady Gaga/Patrizia Reggiani recitano in una palla di vetro, salutano in italiano e parlano in inglese, si lanciano in una deriva camp che sfida il trash a viso aperto, che si fa installazione in movimento, arte del paesaggio umano. Per capire l’arredamento della casa di Scott bisogna uscire totalmente dal realismo, che il regista respinge: non c’è vero né verosimile in questo racconto, soltanto la ricostruzione plastificata della maison, falsa come una borsa Gucci contraffatta, ma forse proprio per questo più “sincera”, perché sottopone la casa alla riscrittura cinematografica e la rende casa di bambole. D’altronde Ridley Scott stava già raschiando sotto la superficie dell’immagine: lo faceva nel precedente The Last Duel, molto sottovalutato, proponendo un racconto in più versioni con minime e decisive variazioni. Non l’ennesimo criptoremake di Rashomon - come si è scritto con pigrizia critica - ma un gesto molto più contemporaneo, più odierno, un tentativo guardare cosa c’è dietro il velo di un racconto, cosa è una ri-costruzione, cosa vediamo davvero mentre guardiamo un’immagine. Che è la stessa questione di House of Gucci: un film che potrebbe essere fallimentare, se il suo impianto non fosse voluto e tenacemente ottenuto. Da maestro.
Al contrario del film di Scott, il Diabolik dei fratelli Manetti invece rifiuta il contemporaneo. «Clerville, anni Sessanta»: in barba all’imperativo di essere “in tempo”, di mostrare e dire qualcosa sulla nostra epoca, i fratelli eseguono il passo del gambero, vanno letteralmente all’indietro. La loro messinscena di Diabolik è un atto di retroguardia, nostalgico e passatista, che sceglie di chiudersi in un’altra bolla: quella di ieri. Ecco che Diabolik di Luca Marinelli, Eva Kant di Miriam Leone e l'ispettore Ginko di Valerio Mastandrea sono bidimensionali, come nel fumetto primitivo delle sorelle Giussani, di cui ricreano perfino la grafica in forma cinematografica, vedi il classico bacio fleminghiano tra i due criminali che da tavola diventa fotogramma. Il desiderio emerge dal buio della notte e si fa motivo chiave del film: tutti desiderano qualcosa ma solo Diabolik ed Eva lo portano a compimento, per questo dopo essersi sedotti seducono anche noi e ottengono lo statuto di (anti)eroi, proprio in quanto realizzatori del desiderio. Nel frattempo però il racconto è quasi catatonico, ingessato, burattinesco: in contrasto rispetto all’iper-velocità di oggi Diabolik si prende il suo tempo, frustra l’action e fa aspettare, non esce dalla gabbia della pagina per entrare nel respiro del cinema. E anche questo è voluto: il rifiuto del presente semina una dolcezza retró, un senso del passato che ci trascina gradualmente dentro la bolla. Lo sanno i Manetti: il genere è anche un sentimento.
La riflessione sull’immagine di Ridley Scott, sulle possibilità di ricrearla, il rifugio nel passato dei Manetti e la rincorsa all’indietro verso un tempo svanito. Cosa hanno dunque in comune? Semplice: sono due mondi a parte. Due operazioni estreme, anche spericolate, fuori tempo e luogo, due contropiedi consapevoli da parte dei loro registi. Due film che non verranno capiti, non a caso entrambi accusati di essere scult: due film che chiedono di uscire dall’oggi, dalle nostre aspettative, di dimenticarsi cosa vorremmo vedere e guardare solo cosa stiamo vedendo.