I Tiburtino Terzo, un nome che sa quasi di band hip-hop di giovanilistica estrazione. Un gruppo di uomini invece, un insieme di strade, di mura, di serrande abbassate, di storie da raccontare, crude, grezze, schiette, come il tono di chi per uscirne non sa far di meglio che raccontarle. Una borgata come quelle della Roma di una quarantina d’anni fa che, imperterrite, si ostinano ad esistere, a sopravvivere tra le tortuosità di un presente che tenta di spazzarle via. Tiburtino terzo è oggi ciò che Pietralata era per Pasolini: un complesso di umanità differenti, ambigue, profane, ma allo stesso tempo tangibili e reali. Una vita violenta da condurre, per portare avanti le giornate, una sceneggiatura già scritta per un documentario che è fatto perlopiù di parole, perché quando queste pesano come massi accompagnarle con l’accessorio risulta superfluo. Roberta Torre ha il suo documentario pronto ad attenderla in strada, inquadrarlo in una forma cinematografica è compito però non elementare, ma la talentuosa regista milanese – firma di Mare Nero e I baci mai dati – conosce il mestiere e plasma un mediometraggio dall’intensità compressa, venticinque minuti in cui l’attenzione è vittima di una preda feroce e invincibile: la curiosità per ciò che è difficilmente visibile ma così da vicino ci guarda e così vicino a noi vive ogni giorno.
C’è il “Polpo”, “che ha le mani in pasta dappertutto”, il “Pipistrello” “che si vede in giro solo di notte”, “Emilianino” che ha 2 anni e 6 mesi di pena sospesa per rapina a mano armata. Ci sono “Rotolini” e “Cuculo”, 27 anni e 24 rispettivamente, c’è la loro spavalderia di oggi e il loro terrore di domani, quello di non riuscire ad indirizzare la loro esistenza su un binario differente. Ci sono Roberto e il suo cane Afrika, entrambi pronti a rigettare tutto ciò che intorno a loro ruota, per ricostruirlo in Brasile o in Colombia, ovunque purché lontano dalle mura di Roma. C’è la tangenziale, una presenza inquietante, una colata di cemento che pare voler incorniciare queste debolezze umane, sogghignando mentre bisbiglia dell’impossibilità di scampargli. Tanti ragazzi di vita, diversi, amici o probabilmente sconosciuti, accomunati dalla borgata d’appartenenza e dalla dissolutezza, che sognano un lavoro e una famiglia e nell’attesa che il sogno gli cada in testa passano le giornate tra la droga ed un furto, Regina Coeli e Tiburtino Terzo.
Volti diversi dunque, che sembrano ripetere un copione da recita: una vita che sembrava la perfezione, pronta in realtà a ritorcersi contro di te come il più reale degli incubi. Ed una macchina attenta, leggera e discreta che sa riprendere senza eccedere, che pone domande lasciando che protagoniste siano le risposte: I Tiburtino Terzo ammalia perché non è null’altro che i suoi protagonisti: scomodi, arroganti, impudenti e ignoranti, ma esistenti e operosi, intensi e vitali. Roberta Torre trae da pochi visi un lavoro prezioso, al quale un solo appunto può realmente esser mosso: la brevità di un’opera che si interrompe invece di cambiar marcia, che si conclude quando il coinvolgimento raggiunge l’apice; ma non per questo meno importante o più superficiale. Non per questo, possiamo non consigliare a chiunque di vederlo.