Il capitale umano

Prima di essere uno dei migliori film della sua carriera, Il capitale umano è anzitutto la conferma di come Paolo Virzì sia ad oggi uno dei nostri registi più importanti, un autore consapevole impegnato a girare un cinema popolare intelligente, riconoscibile, sempre meglio realizzato (Il capitale umano in tal senso svela una maturità registica che pochi altri possono vantare). Ma soprattutto Virzì, che da sempre parteggia per personaggi umili e semplici nei quali rintracciare una genuina umanità, ha il grande talento di far convivere intenti autoriali e respiro nazionalpopolare, andando a colmare quel grande vuoto che affligge il sistema italiano, diviso com’è tra un cinema di massa tecnicamente mediocre e troppo spesso privo di alcuna velleità, ed espressioni intellettuali oscillanti tra una sacrosanta ricercatezza e una smaccata autoreferenzialità. E a conferma del coraggio e dell’approccio sano e giusto che Virzì ha con la macchina cinema, Il capitale umano è il film in cui il livornese rischia di più, sfruttando l’estraneità della materia di partenza (un romanzo dello statunitense Stephen Amidon ambientato in Connecticut) per aprirsi ad un respiro più internazionale, capace di coniugare tòpoi personali e tratti tipicamente italiani alle tonalità algide del noir americano e francese. Questi e altri sono i motivi che fanno de Il capitale umano un grande film.

Affiancato ancora una volta dai fidi Francesco Piccolo e Francesco Bruni, Virzì trova la quadratura del cerchio nell’equilibrio tra novità e familiarità, fedeltà al romanzo e adattamento. Ambientato in una Brianza gelida e rarefatta, Il capitale umano svela da subito i tratti dell’escursione cinematografica, tanto geografica quanto linguistica. Pur rivendicando il suo tipico statuto letterario con un’evidente divisione in capitoli, il film recupera quel meccanismo ad incastro proprio di certo cinema di genere americano, una struttura a tre che ritorna più volte sui suoi passi abbracciando diversi punti di vista, caricandosi di emotività e senso ad ogni passaggio. Il risultato è un giallo che gioca con le aspettative dello spettatore, anche grazie ad un uso intelligente e coraggioso dell’ellisse – l’assenza ad esempio del punto di vista del finanziere di Gifuni, giustamente inconoscibile nel suo machiavellismo faustiano. In questa cornice più internazionale a battere è però il cuore di un cinema italiano che finalmente torna ad essere popolare ma non conciliante, un cinema che sceglie di mettere a disagio, sollevando questioni genuinamente conflittuali (al contrario di quanto facesse in realtà un film come Caterina va in città, fortunatamente ben lontano da questi lidi) attraverso personaggi sgradevoli e familiarmente mostruosi. In questo Fabrizio Bentivoglio e Fabrizio Gifuni, oltre a dare due grandissime rappresentazioni, sono il risultato di una tradizione cinematografica che riemerge proprio nel momento in cui Virzì smette di mimarne le forme per darsi al genere, rispettato e riscritto con poche sbavature (restano dei passaggi di sceneggiatura molto forzati e alcune cadute didascaliche) ma soprattutto senza retorica. Il capitale umano intreccia discorsi culturali e sociali con storie singole e personali, evitando di far pesare il “messaggio” e parlando comunque della crisi tra genitori e figli, del controllo del futuro, della tendenza italiana a prendere sempre la via più facile, nutrita da ambizioni logore e agghiaccianti. Il tutto per l’appunto attraverso le maglie del genere, sfruttato nelle sue potenzialità come poche volte si prestano a fare i nostri autori.

Per questa serie di motivi Il capitale umano appare, nelle sue diverse imperfezioni, un film importante e riuscito, un cupo racconto di deformazione che suona come requiem di un mondo in rapida deflagrazione, al quale Virzì, come ha sempre fatto in tutta la sua carriera, contrappone la bontà e l’amore di una gioventù che sappia essere semplice e sincera. E’ a lei che l’autore livornese dedica il film, lontano da ogni cinismo e in attesa che il paese faccia altrettanto.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 16/08/2014

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