Una spiegazione per tutto
Nelle maglie del film europeo contemporaneo, per districarsi da una crisi senza uscita: quello di Gábor Reisz è il rantolo di frustrazione di fronte un cinema politico in stallo.
Una spiegazione per tutto risolve con stile una contraddizione spesso urticante al cuore del cinema d’autore europeo: la tendenza a presentarsi come sacca di resistenza alla commercializzazione, appiattendosi allo stesso tempo su un proprio campionario di filoni e tendenze non meno rigidi dei temuti genres hollywoodiani. Spesso basta poco, la consapevolezza della propria maniera, la lucidità del sovvertire il minimo, per cavare un suono diverso dallo strumento. Lo trova l’ungherese Gábor Reisz al suo terzo lungometraggio, incoronato agli Orizzonti veneziani del 2023 dopo due piccoli lavori passati a Torino e mai distribuiti. Saggiamente sforbiciato di 25 minuti, Una spiegazione per tutto porta ora in sala una vorticosa e a tratti spiazzante variazione su diversi temi dell’audiovisivo continentale. Un’opera familiare nell’impostazione e imprevedibile nello sviluppo, che svecchia la maniera grazie alla collisione tra mondi cinematografici eterogenei, sottolineandone le contraddizioni nel contesto di un mesto spaccato sociale.
Tanti film-spettri infestano e possiedono il film di Reisz, chiamando in causa il nostro senso di già-visto nei confronti del suo esile spunto. Due gli archetipi della commedia cui il film si rifà: il coming of age liceale da un lato, lo scontro di civiltà tra famiglie di differente estrazione e credo ideologico dall’altro. Altre suggestioni abituali: una scansione diaristica del plot, la frammentazione dei punti di vista, l'assenza dal film del fatto chiave (qui, un presunto quanto feroce alterco politico di cui ognuno ha una versione differente, e che non vedremo mai). Il dramma personale di Abel (Gáspár Adonyi-Walsh), la cui bocciatura all’esame di maturità diverrà suo malgrado un caso nazionale, è allora la storia di un “protagonista sbagliato”, ragazzino non troppo sveglio nella Budapest orbaniana, che carambola fuori da un teen movie e dentro la Storia: quella ingombrante, con la maiuscola, come la materia che tanto odia, e che travolgerà i patemi individualisti del suo piccolo film.
Districarsi dai rovi del passato, quindi della società intera, è il sogno di ogni adolescente incapace di quel vitalismo apollineo che gli si presuppone. Ed è quindi l’ossessione segreta di questo anti-eroe, teenager inquieto in linea a certi protagonisti di Maurice Pialat, svegliatosi dall’era del movimento studentesco in quella della destrosità repressa e infelice.
La sua è quindi una lotta meta-cinematografica per liberare il bildungsroman dalle maglie del film-teorema, istituzione mitteleuropea che da Fassbinder in poi incastra personaggi-allegorie nei marchingegni delle proprie tesi. Le due figure paterne che ne stritolano l’esistenza sono infatti ideologie politiche incarnate, la cui sgradevolezza e complessità di fondo bastano a elevare il testo scritto da Eva Schulze al di sopra di tanti prodotti analoghi (saldamente arroccati sul cliché del progressista-martire e del fascio-scimmia). Nessuna consapevolezza ideologica guida questi “adulti”: piuttosto un rancore sordo e infantile, un senso di frustrazione endemico, come quello che tormenta il personaggio dell’enorme István Znamenák. I ragazzi, spaventati e impotenti come mai il Novecento li avrebbe immaginati, non possono che sbattere ignari contro muri invisibili, soffocanti come il formato-gabbia del 4:3 che ne stringe i volti in un film angoscioso, trappola senza uscita perché scavata da decenni e generazioni.
Merita infine una menzione il dialogo (ovviamente casuale, e quindi ancor più importante) che Una spiegazione per tutto intrattiene con un recente prodotto-gemello dell’industria nostrana: il funereo Altro ferragosto di Paolo Virzì.
Registi e autori del continente registrano ormai da anni la freddezza di quel Pubblico (nella doppia accezione di masse e di spettatori) per cui vorrebbero farsi portavoce di istanze sane. Diverse filmografie, diverse rappresentazioni di questa drammatica e un po’ patetica guerra intestina: tanto l’odiato popolino è abominevole in Virzì, tanto Reisz riconosce agli ungheresi (non cialtroni ma lavoratori, tassinari, parrucchiere, idraulici) la sobria dignità del proprio malessere. L’iperrealismo smorza il tono giudicante della macchina da presa, in un momento storico in cui la centralità comunicativa che fu del cinema è ormai passata ad altri media - e questo temuto giudizio non sembra più prenderci granché.
La croce diventa allora l’eredità del nostro passato recente: svilito e dimenticato nell’Italia dell'autore livornese, ritornante fin troppo presente nell’Ungheria di Reisz. Da una parte, un messaggio finale di morte e apocalisse privata annega nel Mediterraneo-Stige le speranze riformiste; dall’altra, un’elegia della rinascita che scacci i fantasmi cammina sulle acque del Balaton. Una spiegazione per tutto chiude su un bisogno di fuga urlato, sì, ma forse illusorio: perché i suoi piccoli anti-eroi sono innocenti quanto cretini, e l’invito a rompere per sempre con i padri nasconde forse un’incapacità ancora irrisolta di farci i conti.