Il gusto delle cose

di Tran Anh Hung

La trascendenza e la sublimazione del gesto, in un film in cui la cucina diventa arte e ancor più atto d'amore.

Il gusto delle cose recensione

“Il senso di un film è ciò che parola e gesto presi insieme provocano, qualcosa che passa dietro un volto, qualcosa di indefinibile, di misterioso e magnifico” - Robert Bresson

C'è un momento ne Il gusto delle cose in cui la cuoca Eugénie (Juliette Binoche) si trova in piedi alle spalle del suo chef e compagno Dodin (Benoît Magimel); allunga lentamente una mano verso di lui, quasi a volergli sfiorare dolcemente la testa, e la ritrae subito quando l'uomo si volta di scatto, come se avesse percepito il lieve movimento. Non è un gesto consueto per il personaggio, che in quel momento sembra estraniarsi da sé, e risulta indipendente, sospeso, svincolato. Nella sua fugacità racchiude il legame tra i due protagonisti, il loro esprimersi e percepirsi attraverso i gesti e i silenzi, prima che con le parole, ma anche l'impossibilità di toccarsi e congiungersi pienamente. Un gesto non è un fatto semplicemente fisico e corporeo ma una sintesi tra corpo e immagine, pensiero e linguaggio. «L’esibizione di una pura medialità», scriveva Giorgio Agamben, in una muta eloquenza, proprio come per l'immagine, che sottende l'essere-nel-linguaggio dell'uomo. Nel cinema l'immagine si fonde con il gesto, e se da una parte ne è la reificazione, dall'altra ne conserva il movimento, come mostrò Deleuze. Il gusto delle cose è un film che prende forma proprio attorno ai gesti (soprattutto quelli che concernono la cucina) e non è un caso probabilmente che uno dei punti di riferimento cinematografici di Tran Anh Hung sia Robert Bresson.

Per la prima mezz'ora sappiamo pochissimo del contesto narrativo e dei suoi personaggi, appena i loro nomi, ma ci troviamo trascinati in un'ammaliante sinfonia di azioni che si fanno gesti, che iniziano nell'orto e procedono in cucina. Mani che puliscono, che tagliano, che controllano pentole e mestoli, che modellano e quasi accarezzano il cibo, in una vera e propria coreografia composta da forme, colori, suoni e movimenti. Non c'è bisogno di parole o di narrazioni, è tutto incluso nell'eloquenza e nella liberazione della gestualità, che rivela l'anima dei due protagonisti e racconta il loro legame, trascendendo in qualcosa di altro, di sublime. La cucina come arte, dunque, dove la fugacità di un gesto - interrotto, sospeso, finalità senza fine - si trasforma in immagine. Gli ospiti definiscono Eugénie un'artista, complimentandosi dopo il lauto pranzo, e i suoi piatti suscitano in loro (e nello spettatore) sensazioni e passioni intense. La natura immaginifica della cucina si manifesta attraverso Pauline, la giovane nipote della governante, che all'assaggio della salsa bourguignonne riesce a vedere i singoli ingredienti e la loro preparazione (non li immagina solamente, li vede, li sente, in uno dei momenti più significativi del film), come singole immagini e frammenti sprigionati dal cibo, per arrivare poi alla soglia delle lacrime quando assapora l'omelette norvegese, in una sorta di sindrome di Stendhal culinaria.

Il gusto delle cose recensione gd

Se gli elementi narrativi sono rarefatti e non immediatamente delineati, l'ambientazione appare subito chiara. Il gusto delle cose è fortemente legato alla sua epoca, il XIX secolo, tanto che il tempo sembra far parte della narrazione stessa, veicolato in primo luogo attraverso la luce che illumina i volti, i luoghi, i piatti, dando una rilevante connotazione espressiva (pensiamo anche alla scena finale, dove la luce trasforma l'ambiente e rievoca immagini). È un racconto che può trovare spazio e compiutezza solo nel passato, con ritmi e percezioni differenti, prima che la società, come scriveva sempre Agamben in Mezzi senza fine, iniziasse a fare i conti con la perdita del gesto e della naturalezza. Proprio in quei ritmi e in quella naturalezza Dodin ed Eugénie trovano una profonda dedizione, indicatrice del rapporto che negli anni si è sviluppato tra di loro. Cucinare è il modo che hanno per rivelarsi, per comunicare («converso con voi attraverso quello che mangiate», dice Eugénie), per connettersi l'uno con l'altra. Tra i vapori che ammantano la cucina si annida un sentimento che travalica parole e intenzioni, un amore silente e vicendevole. Perché cucinare significa compiere un atto di riguardo, donarsi e dedicarsi all'altro con gesti d'amore che ne Il gusto delle cose celano anche una vena sottilmente erotica - i rapporti sessuali sono lasciati fuori campo, è con la cucina che si esplicita, anche fisicamente, la passione.

Sono due i pasti, mostrati interamente e nel dettaglio della loro preparazione, che scandiscono il film: quello iniziale, offerto agli amici e commensali di Dodin, e quello che Dodin stesso organizza per Eugénie. Il diverso modo in cui Tran Anh Hung li mette in scena è segno del progredire del racconto e ancor più dell'intimo evolvere dei sentimenti. La prima sequenza è una concertazione, esaltata da un montaggio ritmico e ammaliante e da sinuosi movimenti di macchina; il secondo è un assolo raccolto, quasi sussurrato, con cui "il Napoleone della gastronomia" dedica il suo amore a Eugénie, per poi sedersi a guardarla (a contemplarla) come già era avvenuto in camera da letto. Eppure Il gusto delle cose non è un film fatto solo di dettagli e di manifestazioni, ma è sotteso dalla relazione tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile, tra quello che appare e quello che non viene mostrato. Due sono anche i pasti che non vengono messi in scena, per esempio, nonostante siano presentati e attesi, così come a rimanere fuori campo sono i rapporti sessuali e quel vivido passato che ha dato forma al rapporto tra i due protagonisti. E a ben vedere (a ben sentire, anzi) la colonna sonora del film è composta unicamente dai versi di uccelli di ogni tipo, che si fanno sempre più insistenti (sovrastando talvolta le voci); tuttavia non li vediamo mai, come se provenissero da un'altra epoca o da un altro luogo. Uno spazio in cui l'amore di Dodin e Eugénie può trovare finitezza, evocato dalle immagini finali che si offrono come una re-visione eterna e sospesa, richiamando il concetto di stasi descritto da Paul Schrader nel suo Il trascendente nel cinema.

Autore: Andrea Vassalle
Pubblicato il 31/05/2024
Regia: Tran Anh Hung
Durata: 135 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria