Il caricatore, opera firmata da Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata, è un bel film, gradevole, una visione coinvolgente, ma non solo: è uno spunto, un pretesto d’analisi. Questa rubrica – I Sotterranei – nasce con l’idea di bandire la cortina che separa il cinema “ufficiale” dal cinema indipendente, si propone, senza aprioristiche accezioni di positività o negatività, di scavalcare la trincea che separa il grande budget dal cinema fatto (quasi) esclusivamente di idee, privo di grandi mezzi. Questa rubrica parla di un cinema “invisibile”: il trio Cappuccio-Gaudioso-Nunziata tesse una ragnatela che ha le sembianze di una cartina per chi voglia districarsi in questo mondo di vicoli inaccessibili e di strade interrotte.
Il film in questione è un racconto meta-cinematografico di come tutto questa nasca e prenda forma, come l’utopia possa farsi illusione prima di divenire prospettiva che si tramuta in realtà, con ostinazione. L’autobiografismo è il carattere scelto per raccontare una storia scritta e vissuta a sei mani; Il caricatore trasuda realismo non solo mettendo in mostra le difficoltà che si incontrano nel voler entrare nei tortuosi corridoi dell’indipendenza, ma lo ricerca anche nel suo stile, zavattiniano per definizione e d’ispirazione neorealista per rappresentazione. La storia in cui si calano Eugenio, Massimo e Fabio – il livello meta-cinematografico che a tratti sfiora il documentarismo sfugge all’immaginario anche nella scelta dei nomi – è raccontata con l’utilizzo di un bianco e nero imperfetto, sporco, privato di una perfezione formale appartenente ad altri tipi di cinema; l’incompletezza, il vizio di forma nasce da una necessità per farsi scelta artistica, correndo ancora una volta dietro all’insegnamento del cinema post-bellico.
Tutto inizia da un caricatore di pellicola, mezzo primario della rappresentazione analogica, da cui nasce un cortometraggio, formato embrionale della creatura cinematografica. Le storie dei tre amici iniziano a ruotare intorno al loro progetto, al sogno di realizzare un film. Gianluca Arcopinto è un produttore, fonte di illusione e di speranza per aspiranti cineasti, appassionato di calcio al punto da associare il suo appoggio o il suo rifiuto agli esiti di una partita, legando esaltazione e sconforto di chi spera nel suo aiuto ad un tiro che entri in rete o sfiori il palo. Fare un film è un percorso che pone sul suo cammino ostacoli di ogni sorta: familiari, economici, organizzativi, artistici.
Il Neorealismo è – come detto – sicura ispirazione per un progetto di tal genere, ma un film che attraversi tematiche che riguardano la nascita e lo sviluppo di un’idea non può sottrarsi dal render omaggio a chi ha segnato la via: il Guido di 8 e mezzo è un fantasma che si propone continuamente nella mente dello spettatore, inevitabilmente. La dimensione onirica felliniana non è arrivabile – né inseguita dagli autori – che devono molto all’opera del regista riminese, ma che di fatto basano il loro soggetto su un pedinamento di ben altro stampo: “un uomo si alza, si guarda allo specchio, beve un caffè, esce e incontra gente”, una storia semplice, incompleta, banale, ma anche la base di soggetti che sono divenuti capolavori nella storia del nostro cinema. Non è questo il caso, ma il risultato che vien fuori dalla genuina idea di volersi raccontare è un film ambizioso e godibile, realistico e sincero. Il cinema resta un’espressione artistica dal fascino ineguagliabile, un magnifico artificio che se riesce a raccontarsi con semplicità difficilmente fallisce.