Il caso Anna Mancini
Diego Carli esordisce nel lungo con un horror ad alta tensione ambientato nella campagna veronese
Il regista triestino Diego Carli, prima de Il caso Anna Mancini non aveva diretto molto altro: una manciata di cortometraggi tra cui il pluripremiato Orce. Con il suo primo lungometraggio, girato per lo più in point of view a fronte di un budget risicatissimo (nonostante il sostegno della Verona Film Commission e altri enti pubblici), si accoda alla moda imperante da oltre 20 anni del found footage. Attraverso immagini rubate a computer, cellulari, videocamere, emittenti televisive locali e telecamere di sorveglianza, una coppia di intraprendenti giornalisti indaga su Anna Mancini, una ragazzina scomparsa nella profonda provincia veneta (est Veronese). La sparizione è collegata a un altro incidente che ha causato la paralisi totale di un coetaneo di Anna. L’indagine dei giornalisti incontrerà da subito grosse difficoltà e, con crescente orrore e stupore, i due scopriranno un mondo parallelo fatto di misteri, figure inquietanti e messe nere. L’apparentemente placida campagna veronese nasconde segreti in grado di risucchiare in un vortice mortale prima che ci se ne renda conto.
Il genere horror in stile found footage e mockumentary è stato poco battuto dai registi italiani. Esiste qualche titolo come Il mistero di Lovecraft – road to L. o The gerber syndrome: il contagio che ha mietuto successi sia di pubblico che di critica. Diego Carli, con un budget quasi sicuramente inferiore ai predecessori sopracitati realizza un prodotto di genere più che dignitoso riuscendo a innescare nello spettatore ansia e paura. Se l’incipit del film, con la scomparsa della ragazzina via video-chat, può insinuare il timore di trovarsi di fronte a una copia dell’americano Unfriended, proseguendo nella visione Carli offre agli spettatori un’impronta personale, lontana dagli stereotipi d’oltreoceano. Le atmosfere si fanno infatti cupe e soffocanti, merito anche delle location e degli attori autoctoni. Il caso Anna Mancini non dura molto, solo 72 minuti. Ma è una cavalcata ininterrotta dentro a un vortice che non lascia spazio alla noia, ai tempi morti, alle riflessioni troppo complicate. Il film obbliga lo spettatore ad immedesimarsi nei due giornalisti dal simpatico accento veneto e a lasciarsi trasportare, senza poter reagire, da forze misteriose e implacabili fino al terribile epilogo. Particolarmente suggestive sono diverse scene. La prima riguarda l’ispezione di una casa da parte dei due giornalisti: il loro scendere attraverso piani sempre uguali ai precedenti assomiglia a un assaggio dell’Inferno. La seconda riguarda una festa di compleanno interrotta dall’arrivo di Anna Mancini, un piccolo e riuscitissimo saggio di anarchica follia registica concentrato in una manciata di secondi. Ottima inoltre la sequenza della maestra, soggiogata mentalmente e costretta a suicidarsi buttandosi da una finestra della scuola.
Va sottolineato un’ultima volta che il punto di forza di un film che rinuncia aprioristicamente al linguaggio cinematografico classico sono gli attori: un mix di professionisti e non, questi ultimi allievi di teatro e cinema del regista, col quale avevano già lavorato per altri cortometraggi. La recitazione ruspante, realistica e diretta voluta da Carli amalgama entrambe le categorie in un unico coro in grado di infondere una patina di realismo molto più forte e inquietante di tanti film horror stranieri blasonati. I personaggi del film parlano tutti con quella cadenza veneta fortissima che il cinema ci ha abituati ad ascoltare nelle commedie. Qui invece contribuisce, un po’ a sorpresa, ad aumentare l’inquietante realismo dell’opera. Il caso Anna Mancini è un vero gioiellino dell’underground italiano e merita di essere visto e rivisto.