Le cattedrali della mercificazione. I templi del consumo. Gli aggregatori dell’acquisto di massa. Di modi comuni per denominare gli odierni centri commerciali ce ne sono diversi, tanti quante le opinioni che i cittadini ne hanno in merito. Ma su una osservazione possiamo essere tutti d’accordo: ovvero sia che queste chiese laiche del consumismo sono soprattutto dei non-luoghi, spazi architettonici avulsi dal tessuto urbanistico che li circonda e che ospitano al loro interno sciami di persone in perenne movimento al pari di una stazione ferroviaria, e che durante l’acquisto compulsivo dell’ultimo capo d’abbigliamento o del nuovo status symbol procedono ma non percorrono itinerari; parlano ma non comunicano. Di fronte ad un profilo simile la sfida più grande è invertire tali tendenze, cortocircuitare questa corrente d’alienazione.
Ed è proprio quanto sono andati a fare i registi Francesco Dal Bosco e Stefano Consiglio con il loro Il centro, passando tre settimane al centro commerciale Porta di Roma ad intervistare chiunque si ponesse loro di fronte, qualsiasi persona che volesse abbattere il muro di incomunicabilità che caratterizza simili metropoli del consumo. Quanto ne emerge possiede una fascinazione altissima, facendo affiorare tessuti di vita che non smettono di essere tali solo perché posti in questi grandi centri commerciali; ponendo in discussione e sabotando la natura stessa di quel luogo e lo spirito di chi in quel momento lo popola.
Lo spaccato antropologico e sociale che ne vien fuori è incantevole. I grandi centri commerciali odierni, delle vere e proprie città parallele e al contempo avulse dalla metropoli in cui sorgono, possiedono uno statuto tutto loro piuttosto rigido. Essi sono il ritrovo dei ragazzi che due decadi fa erano soliti incontrarsi “al muretto”; sono la passeggiata domenicale della famiglia lavoratrice; offrono svago e rilassatezza ai pensionati che possono camminare meglio lì che nel caotico traffico cittadino. Ma sopra ogni cosa sono una paradisiaca scappatoia al grigiore quotidiano del ceto proletario e piccolo-borghese, che in quell’orgia di luccichii, offerte e prodotti alla moda trova il sedativo ad una vita passata nel perenne tentativo di essere come il costume vuole. Orde di uomini e donne con uno stipendio che non arriva ai mille euro, extracomunitari con il mito dell’Occidente consumistico, giovanissimi che con la paghetta data loro dai genitori cercano di cavarne il maggior numero di acquisti negoziando fra beni necessari e desideri futili perdendosi fra i saldi del vestiario, nel fast-food economico, nel cinema a prezzi ridotti o nel semplice – e tragico – atto del rimirare beni che nella loro vita potranno toccare solo attraverso le mani di un commesso.
Il documentario pur non possedendo – né volendo possedere – qualità artistiche, emerge in tutta la sua bellezza antropologica, grazie alla bravura dei due registi che riescono a instaurare con gli intervistati dei dibattiti sempre interessanti, attenti e capaci di raccontare la società che viviamo e gli stessi uomini che la descrivono. Fra un indumento, una scarpa, un suppellettile e tanta apatia sentiamo parlare di amore, di fede, di crisi economica, dei valori che ognuno di noi ha nella vita. Proprio nei centri commerciali, feticci a basso costo del disimpegno alienante.
Il centro è in concorso al ViaEmiliaDocFest ora in corso ed è visionabile per tutto il mese di ottobre all’interno del sito. Forse a causa di un tema che può sembrare azzardato o che può nascondere più insidie e risultati peggiori del solito, il lavoro di Francesco Dal Bosco e Stefano Consiglio ha registrato sinora poche visualizzazioni e conseguentemente poco più di una manciata di voti. Occorre rimediare: visionate l’opera di Dal Bosco e Consiglio, magari anche votando per un ottimo documentario che racconta il mondo che ci circonda. E che racconta un po’ tutti noi.