Il colore verde della vita
Speranza e redenzione nei dolori del giovane Elias
Iniziamo a parlare di un colore: il verde. Questo è il colore della speranza, una sfumatura di luce nel buio, un raggio, come in Verne (prima) e in Rohmer (poi), in grado di cucire il tramonto all’orizzonte; quell’ultimo raggio di luce del giorno passato, prima dell’avvento del buio del giorno appena concluso. Pochi istanti per leggere ciò che siamo, per riconoscere nella "stupefacente" rifrazione la sincerità del cuore. Anche se l’alba non produce alcuna silvestre rifrazione, dal buio dei tormenti di Elias – interpretato da un credibile Francesco Maccarinelli – si può sempre scorgere l’inizio di un nuovo giorno, l’aurora che disperde le tenebre che abitano il cuore tormentato del giovane ragazzo. Nei casi umani a volte non basta un espediente metaforico (e soave) per districare le matasse che s’attorcigliano negli ingombranti sottoboschi nell’animo umano. A volte serve una guida, un incontro (casuale e fortuito) per iniziare a scioglierli. E’ attraverso un simile incontro che Elias tornerà a vivere la sua vita lontano da quell’intimo tormento che gli attanaglia l’animo.
A seguito di una tentata rapina finita male, conclusa con la morte di uno dei rapinatori nonchè amico di Elias, quest’ultimo che alla stessa ha partecipato sopravvivendo, decide di fuggire lontano, portandosi dietro nient’altro che un bagaglio composto da pochi vestiti ed una viscerale tossicodipendenza. L’incontro del tutto fortuito con Franco, un uomo che si è salvato da una dipendenza e che adesso lavora in una comunità di recupero, e di una ragazza straniera Mia, porteranno Elias a riconsiderare quale strada migliore percorrere.
Pier Luigi Sposato, regista calabro alla sua opera prima, intesse un road movie nelle sue terre d’origine, che riflette parallelamente un’anabasi esistenziale e salvifica, iniziata dal buio dell’animo umano e tesa al raggiungimento di una luce o speranza che coincida anche con una redenzione. Il percorso che Elias compie non è solo una fuga orizzontale tra i paesaggi e le incantevoli terre calabre ma appartiene anche ad un viaggio verticale che dall’oscura profondità della dipendenza e del gesto estremo e violento di una rapina finita male culminerà in un tuffo, salvifico e liberatorio, oltre la negatività di se stesso. Un film prodotto – stiamo parlando di un’opera autoprodotta - e fotografato assai bene, che sviluppa la vicenda attraverso un pastiche di diversi stili propri di generi diversi – dal road movie alle tonalità horror di alcune sequenze, dal grottesco all’action, stili che si rincorrono ma che spesso non si amalgamano come invece dovrebbero. Il carattere intimista del racconto di Elias si aggroviglia in una serie di tensioni (di genere) che tentano (e divertono) lo spettatore lasciando però troppo in disparte, ed eccessivamente in filigrana, il cuore stesso del racconto. La figura di Elias diventa un meccanismo per sperimentare varie strade, diventando da soggetto al centro dell’azione, l’oggetto stesso per un miscuglio stilistico, disperdendo non poco la sua potenza catartica e veicolatrice. Un’opera prima che procede (come spesso accade) per addizione più che per sottrazione, d’altronde le migliori scene risultano essere proprio quelle in cui il personaggio è totalmente immerso in una natura di passaggio o di stazionamento, trasfigurandosi, di volta in volta, in estasi, perdizione, e recupero del proprio essere. Un’opera infine coraggiosa, sperimentale come i passati cortometraggi dello stesso regista, propri di un’identità registica in costante crescita e ricerca, un film che fa dell’imperfezione uno strumento di evoluzione, il primo esperimento di un percorso alla ricerca (così come lo stesso protagonista) della propria identità cinematografica verso in salvifico, silvestre e lungimirante futuro nella settima arte.