Giovinezza nostra addio
Roma, 1968. La città, questa volta, non è un elemento centrale, bensì uno sfondo, un contorno. S’intravede, s’intuisce. Giocano però le architetture, linee orizzontali, verticali, oblique. Funzionali, razionali. Linee che delimitano spazi, e campi d’azione. Linee mai protagoniste, ma importanti e che servono a dividere, a relegare, ad accentuare persone, caratteri, posizioni. Queste linee disposte a dovere compongono uno spazio, diversi spazi compongono un luogo. Una stanza, ad esempio. Una casa. Pareti bianche, senza contrasto, scenari asettici di movimenti.
Marco, e siamo sempre nel 1968, è un convinto rivoluzionario, o meglio, è un anarchico che vorrebbe essere un rivoluzionario. Oppresso da parole e pensieri di persone decise a passare all’azione ma inermi e ferme nei confronti della società capitalista, sceglie lui stesso di risolvere in concreto ciò che viene lungamente e inutilmente discusso in noiose assemblee. Decide dunque di sopprimere il suo amico architetto Lorenzo fingendone il suicidio. L’ipotesi della morte volontaria è accettata dalla polizia, dalla moglie dell’ucciso, da Paolo – un giornalista che vorrebbe realizzare un servizio televisivo sulla figura di Lorenzo – e dalla stessa ragazza di Marco, Juliette, che, giudicandolo un mitomane, non crede alla confessione dell’omicidio fattale dal giovane. Mentre nell’università occupata i suoi amici si affannano a teorizzare nuove forme di lotta politica e culturale, Marco prepara alcune bottiglie incendiarie e le getta sulle forze di polizia venute a sgombrare l’ateneo. Dopo un temporaneo rifugio presso un amico in campagna, torna a Roma e fa saltare in aria, con una bomba, l’auto con a bordo un ufficiale americano della NATO. Successivamente, recatosi con Juliette, in visita alla sorella Laura e allo zio Lucio, di fronte allo spettacolo che essi gli offrono di quel mondo borghese di cui bisogna accelerare la eliminazione, Marco distrugge tutti i segni visibili nella casa, del loro prestigio familiare. Di nuovo a Roma e invitato da Paolo a una proiezione privata del documentario su Lorenzo, uccide il giornalista nello stesso modo usato per sopprimere l’architetto.
Linee, geometrie, architetture. Marco è una trasfigurazione cinematografica di Andrea Frezza, che con il suo Il gatto selvaggio, del 1968 ma uscito un anno dopo, mette in scene la sua vita, i suoi pensieri. Architetto il regista, architetto il protagonista, interpretato da Carlo Cecchi. Una serie di nomi, di facce, che ritornano puntuali. Cecchi aveva già girato La sua giornata di gloria di Edoardo Bruno. Cecchi era amico di Elsa Morante, che lo suggerì al regista per la parte. La Morante era la compagna di Moravia, che torna e ritorna per temi e suggestioni nel film. E poi c’è la generazione, il movimento. Bellocchio, Bertolucci prima, e poi Sandro Franchina, Faenza, Samperi, solo per citarne alcuni. Giovani registi, giovani esordienti, protagonisti di un’epoca, di un momento particolare di quella Italia, di quel periodo. E poi Chris Marker, Godard… “Era nell’aria, bastava guardare, capire” afferma Frezza. Ed è facile intuirlo: nel 1968 al Festival del Cinema di Locarno venivano presentati – tra gli altri – lo stesso Frezza, Faenza con Escalation, I visionari di Maurizio Ponzi – che si aggiudicò il primo premio. Tutti e tre giovani esordienti. Era un’aria fervida, attiva, ora una sequenza di nomi, ma allora energie, energie pure. Nomi che ritornano, storie che ritornano. Energie e forze estreme, costruttive. Momenti e silenzi. Movimenti e parole.
E’ un cinema particolare, spesso e facilmente classificato come “politico”, ma comunque un cinema fatto di idee, di persone, ma soprattutto di emozioni, di voglia di fare. Un cinema fatto da giovani ragazzi quasi sempre alle prime armi, alle prime esperienze. Un cinema, un movimento, una società in rapida evoluzione, in rapido cambiamento. Erano anni di tantissimi esordi, erano anni nei quali la produzione riscontrava numeri oramai impensabili. Erano anni pieni di lavoro, di lacrime, di sudore, e di molotov. E intorno a tutto questo c’era sicuramente Giuliani De Negri, il produttore del film, autore/colpevole di questo come di molti altre pellicole. Una persona, una figura oramai caduta nell’oblio del tempo, sommerso dalla polvere della tristezza culturale quotidiana. Una persona capace di scommettere sui giovani. Di dedicargli cure, attenzioni, tempo, e disponibilità.
In una società fallita, conclusa senza oramai prospettive, il ricordo di quegli anni, di quel periodo, è vivido e triste allo stesso tempo. Di un tempo in cui si poteva e si voleva fare. Un periodo pieno di persone, di film, di libri, di canzoni. Un periodo dove tutto tornava, si dispiegava nei meandri della cultura, della politica, della vita. Persone che compaiono, che scompaiono. Le relazioni intercorse tra questi “giovani turchi italici”. Nel film di Frezza, per esempio, una delle comparse è un certo ed ancora sconosciuto Valerio Morucci, non ancora “ex-terrorista”. O come “Io sono cattolica, ma come Giuditta prese la spada e uccise Oloferne, prenderò il mitra e scenderò in piazza”, battuta del film ma personalmente sentita dal regista in un’assemblea di quel periodo all’università di Trento e detta da una certa Mara Cagol, anche lei non ancora in carriera.
Ma mitra a parte, Frezza come i suoi coetanei sono protagonisti attivi di quello che è stato definito “Nuovo Cinema”. Nuovo per stili, idee, nuovo negli intenti. Nelle azioni. Nuovo nei pensieri, nuovi film, nuovi libri, nuove canzoni. E nuove idee si diceva, nuove opinioni. Il gatto selvaggio è un animale libero, difficile da afferrare, e difficile lo è anche un giudizio in merito. Certo è che la pellicola subì pesanti attacchi dalla rivista Ombre rosse, diretta da un Goffredo Fofi che invece il film lo amava. Stranezze del bel paese, stranezze di un cinema e di un periodo particolare. Il film, comunque irrisoluto, si perde fra ideologia e rivoluzione. O meglio, dell’ideologia abbonda, di rivoluzione scarseggia. E’ un’opera che non propone, non stimola, eccezion fatta delle poche e semplici istruzioni per realizzare una molotov in casa. Già visto, già detto, e che nulla di nuovo apporta a discapito di quel “Nuovo” tanto decantato e innalzato. E’ un film politico? E’ un film poetico? Per i più la prima, per Moravia e Aristarco la seconda. E dei mille dubbi e perplessità che normalmente la vita regala ad ogni battito d’ala di farfalla rimangono le geometriche inquadrature del film. E Gramsci, ridotto ad un parallelepipedo di pietra. E cartelli disseminati per tutto il film (anche questi, sob!, già visti). E un Cecchi che gioca con un poster di Guevara, copre gli occhi, copre “vivo”. E un Cecchi che gigioneggia con una pistola, e un Cecchi che strizza l’occhio a chi “Nuovo” – forse – realmente lo è stato, come chi i pugni in tasca aveva.
Una voglia di nuovo, una voglia di rivoluzione, di cambiamenti. Borghesia al potere, e pensiero borghese con voglie di rivoluzione, al pari di una donna gravida con voglia di fragole alle 4 di notte il 3 di gennaio. Sensi e controsensi di chi un movimento lo ha portato avanti, lo ha costruito, alimentato, e infine distrutto. Perché alla fine di tutto questo rimangono le facce, le persone, i nomi. Individui portabandiera della rivoluzione negli anni sessanta, transmutati in autori del disastro culturale, sociale, intellettuale, economico di questo paese. Un paese inventato ma reale. Un paese selvaggio, come il gatto, come la rivoluzione. Come il pensiero.