Il grande romanzo di Michael Cimino

Cronistoria del desiderio nello sguardo di uno dei più grandi registi della storia americana.

Il 02 Luglio 2016 è morto Michael Cimino.

Tra il 1974, anno del suo esordio con Una calibro 20 per lo specialista, al 1996, in cui realizza Verso il sole, ha diretto sette film. Sette film sui quali il pubblico e la critica hanno costruito il racconto di un regista fuori controllo, un visionario senza regole capace di grandi successi – Il cacciatore (1978) – e dolorosi fallimenti – Il siciliano (1987).

L’elemento ancora oggi più evidente del cinema di Michael Cimino è probabilmente il suo modo personalissimo di intendere la narrazione cinematografica.

Renato Venturelli, nell’introduzione al libro che Massimo Bevegnù e Roberto Lasagna hanno dedicato a Cimino, scrive:” […] I cancelli del cielo costituisce un film-simbolo, ma in chiave non più vittimistico-autoriale, bensì epico-apocalittica, in qualche modo già preconizzata da Turroni quando vedeva ne Il cacciatore la mancanza di quella misura narrativa, che un tempo era magari imposta dai tycoon all’antica, e che sembrava a quel punto sostituita da una sterile libertà “d’autore”. Basta non intendere questo discorso solo in chiave di potere tra autore e majors, per vedere come il dittico “epico” di Cimino su quelli che riteneva i due grandi momenti della storia americana (l’indomani della guerra civile e il Vietnam) sia anche la cronistoria della deflagrazione del racconto, non più controllato dalla “misura” – in senso estetico oltre che produttivo – della vecchia Hollywood.” [1]

Ma qual è il senso di questa “deflagrazione del racconto”? E’ possibile risalire a una reale motivazione dietro le strutture narrative del cinema di Cimino senza trasformarlo in un megalomane visionario privo di disciplina, tentare di capire cosa lo ha spinto a ripensare in un modo così radicale la struttura della narrazione hollywoodiana?

Uno dei possibili spunti su cui iniziare a ragionare lo possiamo trovare nella grande attenzione che il regista ha sempre dedicato alla descrizione dei suoi protagonisti.

La centralità dei personaggi nella sua idea di cinema è ribadita dallo stesso Cimino: “Movies are about people, there’re not about ideas. It’s like great novels. Great novels are not about ideas. There’s never been a great novel about ideas. You think about the great novels in history. Think of [Gustave] Flaubert, [Madame] Bovary, it’s about Emma, it’s not about an idea. You think about Anna Karenina, it’s not about an idea, it’s about Anna”. [2]

Personaggi, non idee. E una messa in scena, di conseguenza, sempre al servizio del racconto: l’obiettivo principale diventa allora, come per tanti narratori, la verosimiglianza e il realismo. Come gli spazi di Una calibro 20 per lo specialista, o i negozi e le strade di L’anno del dragone (1985), che hanno una grande qualità fisica. Sembra quasi di sentire l’odore di questi ambienti, tanto sono ricchi di dettagli.

Lo strumento prediletto da Cimino per dare forma al suo realismo è un grandangolo che inizia lentamente a piegare le linee verticali dell’inquadratura, calibrato sull’attimo prima che esploda in un fish-eye deformante che renderebbe a quel punto troppo evidente la messa in scena del regista. Cimino si ferma invece al limite, lasciando allo spettatore l’impressione che le sue inquadrature siano sul punto di esplodere per quante cose tentino di contenere.

Fino a qui comunque non ci sarebbe nulla di particolare rispetto a un qualunque regista interessato alla credibilità delle proprie storie e caratterizzato da un’intelligente messa in scena.

Il realismo di Cimino diventa qualcosa di particolare nel momento in cui tenta – almeno da Il cacciatore in poi – di dare una forma narrativa ai desideri e ai sentimenti dei suoi personaggi: è attraverso questo che Cimino inizia ad articolare lo sviluppo delle proprie narrazioni.

Steve, uno dei tre protagonisti de Il cacciatore, è vessato da una madre invadente e possessiva, la donna lo va a stanare nel bar dove il ragazzo passa il tempo con gli amici e lo richiama alle sue responsabilità. Per Steve il matrimonio è chiaramente l’occasione per emanciparsi dalla madre e, allo stesso tempo, il coronamento del suo desiderio di amore con Angela: dimostrare a se stesso, a sua madre e ai suoi amici di essere a tal punto uomo da poter addirittura partire per il Vietnam.

“So camminare da solo!” risponde Steve alla madre, rendendo chiaro il suo bisogno d’indipendenza. Non è un caso che Steve, costretto su una sedia a rotelle dopo l’esperienza in Vietnam, non abbia più il coraggio di presentarsi ad Angela o a sua madre: il suo desiderio metaforico di “camminare da solo” è stato spezzato per sempre.

Cimino mette in scena questo desiderio con le lunghe sequenze del matrimonio tra Steve e Angela, e della festa che segue. Dilatare in questo modo il tempo del racconto, dando quindi una forma narrativa al desiderio di diventare uomo da parte di Steve, rappresenta la prima grande frattura di un’ideale scrittura equilibrata all’interno della filmografia di Cimino.

Così come nella sequenza della caccia, preparata dal solito clima di goliardia tra amici e poi improvvisamente immersa nello scontro tra due soggetti: Michael e il cervo. Michael è da solo, i ragazzi sono rimasti indietro. Siamo in cima alle montagne, in mezzo alle nuvole e Cimino mette in scena l’utopia di Michael, il suo codice etico per il quale si ha soltanto un colpo a disposizione per uccidere un animale durante la caccia, concretissima rappresentazione del bisogno di regole e di ordine di un nevrotico, asociale.

Il realismo è talmente ossessivo e onnicomprensivo da trasformarsi in altro da sé e diventare puro simbolo.

Torna in mente quello che Pier Paolo Pasolini scriveva su Deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni: “Ma come è stata possibile a Antonioni questa “liberazione”? Molto semplicemente, è stata possibile creando la “condizione stilistica” per una «soggettiva libera indiretta» che coincide con l’intero film. Nel Deserto rosso Antonioni non applica più, in una contaminazione un po’ goffa, come nei film precedenti, la sua propria visione formalistica del mondo a un contenuto genericamente impegnato (il problema della nevrosi da alienazione): ma guarda il mondo immergendosi nella sua protagonista nevrotica, rivivendo i fatti attraverso lo “sguardo” di lei” [3].

La differenza è che il guardare il mondo attraverso un personaggio si manifesta in Antonioni sul piano stilistico – con tutta la complessità della sua messa in scena – mentre in Cimino passa innanzitutto per l’articolazione del racconto.

E questo sembra del tutto coerente con il fatto che Cimino, da cineasta puramente americano, insegue ancora un’idea di messa in scena invisibile sempre al servizio della narrazione, laddove Antonioni è invece uno dei grandi maestri della modernità europea caratterizzata da una marcata emergenza stilistica.

Ne L’anno del dragone troviamo due personaggi contrapposti: il poliziotto Stanley White e il padrino di Chinatown Joey Tai. Cimino costruisce per entrambi due sequenze che sembrano slegate dal resto del film, ma che hanno invece la capacità ancora una volta di trasformare in narrazione i desideri dei protagonisti.

La prima è l’arrivo di Stanley nel lussuoso appartamento all’ultimo piano della giornalista Tracy. Un arredamento minimale e moderno, un open space con vista sullo skyline di New York che rappresenta visivamente una netta frattura rispetto alla confusione e alla caotica folla delle strade newyorkesi. In questa sequenza assistiamo alla messa in racconto della solitudine di Stanley, il suo bisogno di evadere dalla sua vita e dal suo lavoro, illudersi di potersi rifugiare, anche solo per una notte, a casa di Tracy e sognare con lei una vita diversa.

L’ambizione è invece ciò che muove Joey Tai e che spinge Cimino a mettere in scena un’imponente sequenza ambientata in Thailandia. Joey Tai è venuto per trattare direttamente l’ingresso di eroina negli Stati Uniti, arriva a cavallo accompagnato e quasi venerato da decine di uomini, in una messa in scena quasi western tutta tesa a raccontarne lo sfrenato desiderio di potere.

Più ambizioso, secondo questa chiave di lettura, è il discorso tentato da I cancelli del cielo (1980), dove all’ennesimo loner, lo sceriffo James Averill, Cimino accosta la descrizione dell’intera comunità di immigrati europei della contea di Johnson.

Western collettivo, in totale antitesi con la mitologia individualista del genere, il terzo film del regista interrompe di continuo la linea narrativa principale per tentare di rendere tangibile il sentimento di comunione di tutta una collettività. Se James sogna di ritirarsi e portare la prostituta Ella con sé – un sentimento che Cimino mette in scena con la fuga dei due verso il lago a bordo di un calesse – gli immigrati della contea sognano di rimanere uniti e di affermarsi come collettività interna agli Stati Uniti, ma allo stesso tempo di mantenere i propri tratti identitari (come se rifiutassero il modello assimiliazionista del melting pot per sognare già il multiculturalismo di una salad bowl). Cimino ha qui una grande intuizione: raccontare tutto questo attraverso una danza sui pattini a cui prendono parte uomini, donne, bambini e musicisti, in una sequenza capace di sintetizzare con una grande forza emotiva il sogno collettivo di tutta una comunità.

Il siciliano (1987) è invece un film sfortunato dove la perfetta simbiosi dei lavori precedenti tra personaggi e racconto, sentimenti e messa in scena, sembra non funzionare. Le utopie di Salvatore Giuliano – distribuire la terra ai contadini, sognare gli Stati Uniti assieme alla moglie comunista – sembrano qui meno interessanti di quelle di Cimino stesso, che ambisce a trasformare la figura di Salvatore Giuliano in un eroe western, prendendo un materiale che in Italia può essere nel migliore dei casi raccontato come riflessione sull’impossibilità di raggiungere una verità storica – Salvatore Giuliano (1962) di Rosi, Segreti di stato (2003) di Benvenuti – per declinarlo invece in una narrazione autenticamente epica.

Il siciliano è il primo film di Cimino dove il regista risulta più interessante del suo protagonista. Come a dire che lo sviluppo teorico del cineasta – l’intuizione di partenza è magnifica – è più potente della struttura narrativa del suo film, una struttura incapace di restituire le ambiguità di Salvatore Giuliano e soprattutto di metterne in scena il desiderio. Le idee sono qui più importanti dei personaggi e abbiamo visto che i migliori film di Cimino vanno esattamente nella direzione opposta.

Diverso il discorso per Ore disperate (1990), il film più industriale del regista e il meno interessante per chi ancora ricerca in ogni opera le tracce di un’eventuale poetica dell’autore. Ore disperate è pura capacità di messa in scena e di organizzazione dello spazio, tutto al servizio di una sceneggiatura ordinaria e mai davvero memorabile.

C’è però una sequenza molto interessante, dove Cimino spezza la narrazione principale e si dedica, ancora una volta, alla messa in scena del desiderio. Parliamo del momento in cui il criminale Albert, lasciata la casa dove Mickey Rourke si è rifugiato prendendo in ostaggio la famiglia di Anthony Hopkins, si perde in una fuga impossibile tra montagne e cavalli. Prima di essere ucciso Albert osserva la natura intorno a sé, bellissima, incontaminata, e accetta la propria morte come nel finale di un film western. Cimino torna a legare insieme narrazione e desiderio ma lo fa dedicandosi a un personaggio assolutamente secondario rispetto allo scontro tra Rourke e Hopkins che rappresenta l’ossatura del racconto. Sembra quasi che Cimino, attraverso Albert, abbia messo in scena il suo desiderio, quello di confrontarsi con la forma cinematografica del remake – l’omonimo film di William Wyler con Humphrey Bogart – e di sognare il ritorno nostalgico a un immaginario western.

Tutti gli spunti inespressi di Il siciliano e Ore disperate conducono direttamente a Verso il sole (1996), magnifica fusione tra la nostalgia per un passato cinematografico estinto – nostalgia che passa non a caso per la struttura di un western – e la ritrovata capacità di far aderire il racconto ai desideri dei protagonisti.

Tutto il film è la messa in scena del desiderio di Blue, un ragazzo navajo malato di tumore, che sogna di raggiungere le montagne sacre al suo popolo e bagnarsi nelle acque di un fiume con proprietà curative. Verso il sole è filtrato dallo sguardo di Blue, il mondo è messo in scena secondo la prospettiva di un ragazzo cresciuto per le strade di Los Angeles (la banalità delle scene di violenze, lo stupore davanti alla bellezza della natura e il richiamo fortissimo verso le radici del proprio popolo). Verso il sole è un raro esempio di film-desiderio assoluto e, da questo punto di vista, il capolavoro di Michael Cimino.

Quello proposto è solo uno dei tanti modi con i quali si può tentare di dare un senso a quella “deflagrazione del racconto” di cui parlava Venturelli e a continuare a riflettere criticamente sull’eredità lasciataci da Michael Cimino. Un’eredità che ci sembra ancora oggi estremamente importante per chi è interessato a un’ideale di narrazione classica – pensiamo al Michael Mann di Miami Vice (2006) che per raccontare l’amore impossibile tra Colin Farrell e Gong Li concede loro una folle fuga in motoscafo fino a l’Havana – e uno dei lasciti più affascinanti di un regista tanto appassionante e complesso quanto sfortunato e spesso dimenticato.

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[1] Renato Venturelli prefazione a, America perduta – I film di Michael Cimino, di Massimo Benvegnù e Roberto Lasagna, Alessandria, Falsopiano, 1998. Pag.6.

[2] Seth Abramovitch, Michael Cimino: The Full, Uncensored Hollywood Reporter Interview, The Hollywood Reporter, 2015: http://www.hollywoodreporter.com/news/michael-cimino-full-uncensored-hollywood-778288.

[3] Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1991, pp.179.

Autore: Germano Boldorini
Pubblicato il 28/10/2016

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