Il matrimonio - Le Mariage
Un viaggio nel tempo nell'attimo vissuto ed in quello ricordato, ripreso e tramandato
Il matrimonio – Le Mariage di Paola Salerno è un viaggio nel tempo di natura squisitamente cinematografica. Perdonate se ne discuterò in prima persona ma il lavoro della regista mi ha dato molto da pensare, devo ammettere. Vorrei, almeno per questa volta, almeno in questo specifico caso, sostituire la recensione canonica, forse pertinente ma comunque analitica e distaccata, ad un mio pensiero che si svincoli dal canonico e formale resoconto (o critica se vogliamo) del film. Consapevole più che mai che un lavoro come questo lo possa permettere.
Iniziamo dalle cose prime. Dall’enunciato che è anche sia il contesto che la trama. Paola Salerno riprende i preparativi del matrimonio del fratello Checco nella casa, in Calabria, dove risiede e dove si riunisce l’intera famiglia. Famiglia questa di stampo fortemente matriarcale e multiculturale. Le donne nella famiglia sono i cardini attraverso i quali lo sguardo, anch’esso femminile, anch’esso partecipativo, volteggia possedendo un piumaggio che lo libra, e libera, svincolandolo dalla necessità di un centro di gravità. Un film che potrebbe essere visto al contrario, che potrebbe partire dall’ultima scena e ritornare al suo punto iniziale, al viaggio in treno. Un film che è una dedica e un ricordo, dolce come una carezza fraterna, intriso di un amore incondizionato. Come una madeleine di natura proustiana il film procede come un singhiozzo di un ricordo condiviso. Alla luce della sua particolarissima genesi realizzativa – il girato è stato, per dieci anni, fonte di montaggi e rimontaggi – l’ultima scena, dove la bambina e figlia di Paola oramai cresciuta, indossando lo stesso abito da damigella, fa volteggiare le mani dentro ad un ciuffo di fiori dai lunghi steli, come a voler sottolineare il tempo che passa sia dal lato identitario sia dal lato naturale, àncora lo sguardo alla rimembranza, alla ricerca di un tempo ricercato, ritrovato e mai perduto.
Proseguiamo con un’affermazione che mi è nata subito dopo la fine dei titoli di coda: Il matrimonio è un film che chiunque discuta o voglia fare cinema deve vedere. Allora mi chiedo: cosa differenzia un semplice filmino cinematografico (un home movie, per esempio) da un lavoro così intensamente affascinante e cinematografico? Cos’è che lo rende così denso di significato condiviso e non solo significativo per i componenti parentali nonché protagonisti del girato e del matrimonio stesso? Sarà forse la tecnica di ripresa, così imperfetta, così estemporanea e sincera, no, non credo. Il motivo risiede forse nella particolarità della famiglia che viene raccontata? In parte il fascino dipende da loro, ma continuo a non essere pienamente convinto. Sarà forse l’intima partecipazione di uno sguardo che coincide con l’affetto di una protagonista-regista interno alla famiglia, che coincide con un ricordo che si sovrappone al lascito? Ci stiamo avvicinando, dipende anche da questo. Sarà la selezione del montaggio, la scelta che determina il visibile dall’invisibile? Visto il lungo lavoro di post-produzione parte della riuscita è determinata da questo fattore. Ma qual’è la vera differenza in grado di innalzarlo ad opera di comune significazione, sia per loro che per noi, il pubblico? Il lavoro di Paola Salerno si struttura sulla selezione di quel materiale di scarto che rende vera la realtà. Il lavorio simile ad un backstage racconta molto più rispetto alle scene portanti, fondamentali per l’evoluzione della narrazione. Il matrimonio è sia il titolo sia un fine ultimo che la regista lascia – giustamente - in fuoricampo, al di la dei titoli di coda. Per la regista non è importante l’atto ma la sua preparazione, la sua esecuzione in quanto fenomeno in divenire. E’ in queste scene che appare la famiglia, è in queste scene - di condivisione, di canto, di vecchi rancori famigliari, di risa, di partecipazione – che la famiglia si definisce e si racconta. E’ l’atto stesso del ricordo che seleziona il materiale definendone le importanze. E’ un viaggio a ritroso per ritrovarsi avanti, in un futuro condiviso e appacificato. Come il nostro cervello si ricorda una nota, un colore, un sapore e da questo spunto può partire per contestualizzare un’impressione attraverso una sequenza frammentaria, diacronica anche se nel suo interno disordine, il matrimonio è il principio e allo stesso tempo il fine di un istante condiviso, cristallizzato nella comunione delle immagini che lo registrano, per loro stessi e per gli spettatori che attraverso di loro si arrivano a riconoscersi sentendosi parte integrante di un flusso d’immagini arriva a comprenderli, raccontandoli. La partecipazione differenzia questo lavoro da un altro. La condivisione e l’apertura verso un’intimità struggente, sono questi i fattori che arrivano a renderlo allo stesso tempo unico e comune. La somma, sulla stessa linea del cuore, che unisce l’enunciato, l’enunciatore e l’enunciatario. Un film che possiede un finale fortemente imprescindibile, di una potenza empatica chiarificatrice ed una limpidezza malinconica capace di assoggettare ogni sguardo, ogni momento, ogni cuore verso un unico obiettivo: il ricordo di chi siamo e di chi siamo stati, stando insieme, appartenendo alla stessa famiglia, appartenendo alla stessa materia, appartenendo allo stesso pensiero; nell’unione di attimi che più ci rappresentano come nucleo e che continuano ad appartenerci a strutturarci, ed insieme a raccontarci.