Il notturno di Chopin
Un maestro del passato si rifà vivo per raccontare, attraverso una bambina, il tedio del vivere quotidiano.
"I vecchi sono due volte bambini"
Aristotele
C’era una volta il cinema di genere italiano. E a un tratto non c’era più. Poi tornò, ma non aveva una bella cera. A farlo risorgere erano state alcune forze congiunte: l’impegno di una piccola parte della critica nostrana, l’amore di certi registi d’oltreoceano, l’euforia di un pubblico cresciuto con Pierino ed Er Monnezza. Per realizzare ciò si era proceduto da un lato alla rivalutazione di tutto quel che è popolare, capolavori e obbrobri, e dall’altro col produrre del nuovo, anche in questo caso con risultati altalenanti. Poteva e può quindi capitare che i maestri riscoperti e i registi attivi si fondino in un’unica persona. È il caso ad esempio di Enzo G. Castellari che, a seguito della benedizione di Tarantino, decide di tornare alla regia dopo anni di inattività con Caribbean basterds. Consapevole però della sciocchezza che sta commettendo prova a espiare la sua colpa facendosi prendere a pugni all’interno del suo stesso film.
Due anni dopo, nel 2012, a rifarsi vivo è Aldo Lado con Il notturno di Chopin. Il Nocturno di Gomarasca lo appoggia: il caporedattore produce insieme allo stesso regista e il vice caporedattore, Pulici, si concede un cammeo per poi recensire il film con entusiasmo. Al di là del conflitto di interessi, è encomiabile la volontà di ridare voce a un regista in pensione che, troppo avanti con l’età, probabilmente passa la maggior parte del tempo a leggere il giornale su una panchina del parco pubblico, come lui stesso si raffigura all’inizio del film. Nonostante ciò lo spettatore che conosce la filmografia di Lado è pronto a ridargli fiducia, in fondo si tratta di una storia di rapimento, come in La corta notte delle bambole di vetro, e di violenza sui bambini, come in Chi l’ha vista morire?. Il problema è in realtà definire la storia: una bambina in uno scantinato. È evidente che manchi il verbo. Sappiamo che la piccola protagonista è stata catturata mentre lanciava il frisbee con un’amica e la madre le urlava di andare a studiare geografia. Sappiamo che dalla finestra della sua prigione grida aiuto di continuo ma nessuno ha orecchie per sentire. A parte questo non succede nulla. Un soggetto del genere sarebbe bastato per un cortometraggio e forse sarebbe avanzato del tempo per uno sbadiglio. Esiste però in Italia la tendenza a dare valore alla lunghezza a scapito del resto, ampiezza in primis.
Così si realizzano lungometraggi là dove non se ne avverte il bisogno, con somma amarezza di chi quel film lo deve vedere per recensire e si scopre invece intento a meditare sulla propria esistenza lungo gli ottanta minuti imposti. Un altro dilemma de Il notturno di Chopin è la catalogazione. Sfogliando in rete alla voce genere si trova sempre scritto horror. Sorvolando sull’assenza di una qualsiasi connotazione sovrannaturale, si stenta a definire il film di Lado un thriller perché del tutto privo di suspense o angoscia claustrofobica. La bambina in ostaggio appare più spensierata del sottoscritto la domenica pomeriggio e pone dunque drammatici interrogativi sul senso ultimo del film e sul perché lei si trovi in uno scantinato in mezzo a cataste di giornali d’epoca. L’ambiente non è affatto isolato dal mondo esterno, avendo una finestra che affaccia sulla strada, ed è nell’uso comune adibito a deposito di ciò che ha smesso di servire. Alla luce di tali constatazioni si accende l’ipotesi che la giovane protagonista altro non sia che Lado stesso (per un regista che ha il nome che è l’anagramma del cognome il gioco di rimandi non è mai da sottovalutare). Lo hanno messo da parte, dimenticato, segregato, seppellito sotto articoli di riviste impolverate e ora lui si annoia, ci prova a distrarsi, giocare, comunicare, sentirsi vivo. Ma nulla. La possibilità di ricominciare è solo un’illusione. Se l’intento dell’amico Aldo, a cui vogliamo bene nonostante tutto, era trasportarci nel suo mondo per trasmettere il tedio del sopravvivere quotidiano, bisogna ammettere che ha composto un onesto saggio sulla senilità.
Tecnicamente va palesato che il film lascia molto a desiderare. Il regista non è stato in grado di adattarsi al mezzo moderno e il suo rimanere con i piedi nel passato è ben rappresentato dal videogioco anacronistico della protagonista. L’audio è certamente la pecca maggiore in un film che, al di là di ogni limite di budget, non regala alcuna inquadratura o battuta per cui essere ricordato. Ma anche in questo caso, era forse la volontà di Aldo: dimenticatemi.