Roma, brucia. In un freddo dicembre il suo cielo si riempie di fiamme, fumo e pietre. Per taluni sembra essere tornati indietro di tanti anni. Per molti siamo ad oggi dove un governo che non governa ottiene la fiducia mentre fuori studenti e non scaricano la loro rabbia in una capitale blindata e feroce. In un’Italia dove il governo governa a suo piacimento, si fa sempre più forte la consapevolezza di un disgregamento sociale ed intellettuale. E’ un paese votato all’autodistruzione, niente di nuovo rispetto a 40 anni fa, ma in questo momento più che mai è in direzione inarrestabile verso il baratro. Rimane una speranza, un sogno. Sarebbe triste pensare che ci siano vite senza sogni. L’importante è non tramutare questi sogni in utopie. E in questo paese dove pare regni una “dittatura di merda“* le utopie abbondano come le ipocrisie e le vergogne.
Presupposto che la democrazia è un grande oppio, in un paese sociale e civile che si definisca tale sono pochi ma essenziali i punti che dovrebbero essere fermi: l’istruzione, lo stato sociale, il lavoro. E la cultura, se di spazio ne rimane. Una cultura ed un’istruzione che nello stato attuale delle cose si produce e si mastica in maniera sempre differente e sempre nuova. Dal libro al file, dal museo al web. Ed in un paese fortemente cattolico ed arretrato come l’Italia un’altro elemento rimane pur sempre fondamentale e centrale: la famiglia. Con frane, smottamenti, disgregamenti la famiglia rimane un dato certo. Si compone e si scompone, si allarga o si stringe, nasce o si estingue è sempre la stessa. Di grandi famiglie oramai ce ne sono poche. Grandi intese come corpose, numerose e prestigiose. La maggior parte si sono lentamente sgretolate. Anche loro. Altre hanno perso alcuni pezzi, come se fossero dei grandi puzzle dei quali qualcosa viene sempre a mancare. Ma di tutte queste una ancora perdura e resiste contro le intemperie più atroci: la Famiglia Agnelli. Intorno la prestigiosa famiglia piemontese ruota Il pezzo mancante , documentario firmato da Giovanni Piperno e prodotto dalla Goodtime – società gestita da Gabriella Buontempo, consorte dell’on. Italo Bocchino, e Massimo Martino, consorte di sua moglie ovvero l’attrice Tosca D’Aquino – in collaborazione con l’Istituto Luce, e presentato all’ultima edizione del Torino Film Festival nella sezione “Festa mobile – Figure nel paesaggio”. Il film è stato inoltre selezionato per la rassegna CinemaDoc (da noi già affrontato per Il sangue verde, This Is My Land… Hebron, El Sicario – Room 164, Left by the Ship, Ma che Storia… e Le radici e le ali), promossa da enti e istituzioni varie al sacro e nobile fine di diffondere il documentario nelle sale cinematografiche.
La gestazione di quest’opera commissionata all’autore è durata oltre tre anni anche per via dell’inaccessibilità della Famiglia Agnelli, da sempre molto riservata. E infatti la ricerca, l’indagine, l’introspezione si muove attraverso i ricordi degli amici della Famiglia, imperniando il centro della narrazione apparentemente sulla figura di Gianni Agnelli, detto l’Avvocato, ma spostandolo via via sui numerosi componenti della famiglia. Dopo gli oltre settanta minuti di proiezione ci si domanda quale sia questo pezzo mancante che regala un bel titolo nel triste panorama del cinema italiano. Ci si domanda se sia Giorgio Agnelli, fratello fantasma dell’avvocato morto giovane in una clinica psichiatrica in Svizzera, il classico scheletro nell’armadio di ogni famiglia. O forse Edoardo, figlio dell’avvocato morto giovane, però suicida. Il film risulta essere una bella carrellata sia sugli Agnelli che su Torino. Interviste e movimenti orizzontali della macchina da presa, visioni orizzontali di una verticalità assoluta che perdura da un secolo e più.
Ci si perde dietro lo charme di Gianni Agnelli, figura che fin troppo accentra, quasi a voler depistare la rimozione, vero elemento centrale sia del film come della dinastia in questione. La rimozione applicata dalla famiglia circa le vite e i dolori di Giorgio e di Edoardo. La rimozione applicata nella famiglia in una sua non complicazione e collaborazione. La rimozione del regista forse mai appassionato realmente al progetto (gli è stato commissionato, lo ricordiamo). La rimozione della monocultura torinese per intenderla alla Lidia Ravera, ovvero quella città fabbrica quale era, e quindi i rapporti con la gente, con gli operai. Non è sufficiente il ricordo di un solo operaio. Perché la Fabbrica Italiana Automobili Torino e la sua gestione non sono roba da poco, roba da liquidare con similitudini scimmiesche. Di contorno regalano un sincero piacere agli occhi vedere per la prima volta il repertorio inedito della CineFiat, che solo a sprazzi ricorda quanto sopra. I bei faccioni degli Agnelli, grazie a questa gloriosa iniziativa, andranno finalmente sul grande schermo complice anche Piperno e il suo entourage. Onore e merito ad un lavoro italiano di certa e indiscussa fattura. Pensato, ragionato, ben confezionato. Dimenticando alcune stupide quanto inspiegabili animazioni di contorno stile MTV. Di contrasto, contrappunto, l’idea che sia un film incompiuto. Che a ben altro poteva aspirare, mirare, colpire. Questa rimozione, elemento narrativo poc’anzi espresso, si cela dietro le affinità registiche di Piperno. Una rimozione ad ambire, a osare. Certo… è un lavoro su commissione!
* “Dittatura di merda“ è una definizione del Prof. Ferdinando Taviani in Draquila (Sabina Guzzanti, 2010)