Anche da Corviale si vede la luna. E nelle sere d’estate, spesso, si sentono anche i grilli. L’ecomostro costruito da Mario Fiorentino nel 1972 sorge proprio su una collina verde, dove pascolano pecore e cavalli. Ma se venendo dalla Portuense girassimo lo sguardo dal lato del finestrino e avvistassimo il serpentone, l’immagine sarebbe comunque poco edificante. Anche agli occhi degli architetti, il palazzone di nove piani rappresenta il figlio troppo cresciuto dell’esperimento di Le Corbusier. E non c’è solo questo. La periferia di Corviale soffre di una fortissima rarefazione sociale, vissuta dai suoi abitanti in una condizione di forte malessere. Ed è proprio il silenzio l’espressione profonda di questo disaggio, che avvolge questo piccola realtà di periferia, sospendendola in una bolla. Ma il silenzio a volte ha un suono più forte del rumore, e qualcuno lo ha udito. Lo ha udito la sensibilità di Antonello D’Elia, un medico del Distretto di Salute Mentale all’inizio del suo lavoro nel quartiere, il popolare Casetta Mattei. Secondo D’Elia la percezione di chi sta nelle aree circostanti è che il degrado c’è, ma che non è certo la prima proprietà che salta agli occhi, come neppure la sua fama di luogo pericoloso. Il problema più grave, infatti, è quello di una qualità di vita “spenta”, ed è proprio da questa considerazione che nasce il documentario di Marco Danieli Il silenzio di Corviale, come dalla sensazione degli abitanti di sentirsi “polli di batteria”, per la mancanza di spazi identitari. Il Silenzio di Corviale, è un progetto di Antonello d’Elia realizzato con la collaborazione si una troupe di studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia, con la regia di Marco Danieli, e prodotto dal Comune di Roma e da Asl RM/D. I protagonisti del documentario sono le persone che vi abitano da venticinque anni. Questi si prestano offrendoci uno sguardo dall’interno, facendoci scoprire un luogo non più abbandonato ma riedificato. Un microcosmo dove persone normali vivono vite normali, chiusi nei loro salottini ordinati da famiglie piccolo borghesi dove la vita sembra esaudirsi. Ma messo un piede fuori dal pianerottolo già tutto è diverso: lì i danni del passato sono ancora visibili.
Il regista tocca tutte le generazioni offrendoci uno spaccato variegato e dai molteplici punti di vista: madri premurose e spaventate, giovani pieni di orgoglio e di voglia di riscatto, trentenni che sentono forte il loro stato di radicamento in quel luogo dal quale non sanno più come evadere. Lo sguardo però, purtroppo, rimane all’interno, e il regista ci mostra poco di questa realtà quasi decontestualizzando i personaggi. Il film si divide in una prima parte dove si avverte con immagini fotografiche e voci fuori campo l’impatto sugli abitanti del serpentone, e poi nella seconda sezione straripa il loro orgoglio dettato dalla dignità che loro stessi hanno dato a quella terra di confine abitandola. Si avverte la forte contraddizione tipica di chi vivendo una realtà difficile, sulla quale aleggia il gratuito luogo comune di “zona pericolosa”, alla fine ne prende le parti sentendola parte di sé. Il finale non è chiaro, dal punto di vista formale come negli intenti. Ma il film ci lascia con una testimonianze importante nella quale si delinea bene tutto il vantaggio e l’eccezionalità di essere un abitante di Corviale: “Per affrontare un branco di cani bisogna portare sempre due pietre. Prima tenti di colpire il capobranco, se non lo prendi con l’altra colpisci il vice, e vedrai che così scapperanno tutti”.