Internat

Con Internat il regista Maurilio Mangano racconta un dramma attuale e insoluto - quello dei profughi georgiani dell’Abkhazia - per lo più trascurato a livello mediatico

Maurilio Mangano, palermitano classe 1980, racconta con Internat un dramma attuale e per lo più trascurato a livello mediatico, ma che tuttavia è ben lungi dal trovare una soluzione. E’ quello dei profughi georgiani dell’Abkhazia, scacciati brutalmente dalle loro terre più di venti anni fa e a tutt’oggi assurdamente sospesi in un limbo.

Dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica, la Georgia viene riconosciuta indipendente, e nel frattempo le tensioni interne tra abcasi e georgiani salgono fino a sfociare in un sanguinoso conflitto appena all’inizio degli anni novanta. Sul fronte georgiano, si registrano circa trentamila morti anche a seguito di una vera e propria pulizia etnica, e circa trecentomila profughi. Alcuni di questi, dopo la caduta della città di Sukhumi, hanno attraversato a piedi i valichi montani delle regioni confinanti con l’Abkhazia, trovando la morte, in parecchi, a causa di una nevicata autunnale inaspettata e sorprendentemente violenta. E’ questo l’episodio terribile che apre il film, con immagini di repertorio sgranate e silenziose e tuttavia così eloquenti: piccole figure che si perdono nel bianco tutto uguale della neve, e attorno solo il rumore del vento.

Subito dopo vediamo l’Internat, una ex scuola dove vivono alla meno peggio circa sessanta famiglie di profughi. Siamo nella città di Kutaisi, a soli centottanta chilometri dal confine con l’Abkhazia, un confine così vicino e tuttavia così invalicabile, tanto da far sembrare le terre d’origine lontanissime, mitiche, leggendarie. Per gli uomini dell’Internat il tempo si è fermato: si vive cristallizzati nell’amarezza, nel ricordo, nella nostalgia. Soprattutto, si vive di rituali (come i lunghissimi brindisi, cerimonia in cui sembra sedimentarsi tutta una cultura), e di speranza: quella di poter tornare, un giorno, a casa propria. Queste persone sanno che le loro abitazioni sono quasi devastate, che “non si vedono neppure dal satellite perché ormai sono ricoperte di vegetazione”. Nel frattempo sono costretti a vivere in squallidi non-luoghi (scuole e ospedali dismessi e abbandonati), dove oramai i loro figli sono nati e stanno crescendo, senza aver mai visto la loro terra. Una normale quotidianità quasi tecnologica si mischia e si fonde con un onnipresente culto degli avi che alle orecchie di un occidentale suona arcaico e remoto; il coraggio dei padri morti nella guerra recente viene esaltato e ricordato ogni momento: le loro azioni diventano gesta eroiche da celebrare continuamente con estrema serietà. Ma le loro tombe sono inaccessibili: questa distanza fisica dai luoghi di sepoltura, così importanti per il culto dei morti, si fa straziante ed esacerba a dismisura l’umiliazione di essere stati scacciati dalle proprie città.

Se gli uomini si sono autoeletti depositari di un mondo che temono in dissoluzione, le donne quasi non hanno il tempo di abbandonarsi alla malinconia. Devono crescere e istruire i figli, mandare avanti le famiglie, spesso lavorando all’estero. Una donna anziana parla su skype con il figlio giovane: si preoccupa per la sua salute, si dice stupita di essersi ritrovata “a fare la serva in casa d’altri”. Lottando quotidianamente, queste donne vanno avanti e guardano al futuro, consapevoli però che la “normalità” della vita dei loro genitori sarà negata ai propri figli.

I bambini ascoltano i parenti adulti che raccontano l’epopea della guerra: una guerra fratricida difficile da comprendere per chi non l’ha vissuta. Eppure, la guerra è sempre presente e incombente, perfino nei loro giochi e nelle loro chiacchierate. Quando uno chiede a un altro cosa avrebbe fatto se fossero arrivati i russi, quello risponde con naturalezza, ridendo, “sarei andato al cimitero a nascondermi, così se mi avessero ucciso avrei avuto la tomba già pronta”. Poco si può aggiungere a questo piccolo, spontaneo e sconcertante dialogo tra ragazzini, che il regista ha il merito di raccogliere con grande naturalezza e discrezione e che diventa, per gli abissi del pensiero che spalanca, uno dei momenti più significativi del film.

Immagine rimossa.

Si legge, tra le righe, il complesso e sottile lavoro che Mangano ha portato avanti per conquistare la totale fiducia delle persone che si raccontano all’obiettivo della macchina da presa, senza timore di rivelare tutta la loro fragilità, il tormento dei ricordi, il senso di frustrazione e sconfitta. E’ un Purgatorio, l’Internat, di precarietà e speranza, dove nemmeno ai bambini è concessa la spensieratezza. Al regista va il merito non solo di avere portato l’attenzione su tutto questo, ma di averlo fatto con schiettezza ed efficace semplicità, cercando scampoli di poesia in un mondo provato dalla durezza del vivere e dal dolore e dalla rabbia dell’ingiustizia.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 24/03/2015

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