Piccolo breviario di storia del teatro contemporaneo (di ricerca, naturalmente): i membri dei Pathosformel, provenienti da ambiti artistici e da studi differenti – Storia dell’Arte, Design… – si incontrano a Venezia nel 2004 ed iniziano a lavorare insieme con un approccio “collettivo” e democratico. La scelta del nome è riconducibile ad uno studio comune su Aby Warburg, che racchiude nel termine “Pathosformel” tutte quelle immagini archetipiche che si ripresentano in contesti differenti nel corso del tempo: dunque una chiara direzione nei confronti dell’immagine e della figura, tra originalità e ripetitività, che però si sviluppa in una poetica innovativa più vicina alla manifestazione di un processo in atto che al raggiungimento di un risultato. Lontani dal senso e da una significazione velleitaria, i Pathosformel catturano il nostro sguardo attraverso una gestualità apotropaica, in un’atmosfera ancestrale che ha sempre una forte dose di dolcezza e di carica emotiva. Ciò che vogliono ottenere è una sorta di opera aperta, una ricostruzione da parte dello spettatore che non deve mai chiudersi nella messa in scena dello stimolo iniziale o dell’idea che ha fatto nascere tutto, ma deve prestarsi ad una compresenza di innumerevoli micro-storie che ogni spettatore interpreta e percepisce a suo modo. Tale lavoro di ricostruzione è necessario ne La timidezza delle ossa (2007): una tela illuminata e dietro dei corpi che roteano e si muovono dando vita a nuove forme che emergono all’esterno ma che subito dopo si ritraggono timide. Una messa in discussione del corpo, un input all’osservatore per costruire lui stesso un’immagine, una sorta di delega per la scelta di una strada interattiva diversa per ognuno, che è il massimo livello di coinvolgimento per la platea. Tassello importante tra le varie esperienze formative è un laboratorio universitario con la Socìetas Raffaello Sanzio, e successivamente una residenza semestrale al Teatro Comandini che sempre Romeo Castellucci (letteralmente deus ex machina della Raffaello Sanzio) offre loro dopo aver visto uno dei progetti realizzati. In seguito, la compagnia entra a far parte di Fies Factory One, volano concettuale e materiale della Centrale Fies di Trento con la mission di “sostenere le nuove generazioni che lavorano nell’ambito delle ricerche artistiche contemporanee attraverso un’unica strategia creativa di comunicazione e promozione della performing art”. Grazie a questo coinvolgimento in una programmazione pluriennale iniziano a lavorare in pianta stabile sulla loro poetica e sul loro percorso artistico: La più piccola distanza (2008) continua il lavoro di occultamento del corpo, questa volta non in modo parziale ma sostituendolo completamente con un movimento di figure geometriche che è un segnale di ricerca ben preciso: cercare l’umanità, anche privando la scena del corpo umano, e sostituendola con delle qualità geometriche e dei movimenti che rimandano ad un certo tipo di interazioni. Tale risultato viene raggiunto perfettamente nel loro ultimo spettacolo, La prima periferia (2010), nel quale il corpo umano c’è e viene mostrato completamente ma con una funzione diversa: tre performer si alzano uno alla volta, si dirigono verso tre strutture di legno che hanno la forma di uno scheletro umano e iniziano a “farle muovere”, spostando le braccia, inclinando il capo e sollevando le gambe. A poco a poco, gesto dopo gesto, lo statuto di corpo viene messo in discussione ancora una volta: gradualmente, si ha la sensazione che ci sia un unico corpo, che quelle strutture siano vive, malgrado il palese sostegno dei tre performer e che anzi, risultino più umane di loro. Anche qui la presenza simultanea di micro-storie, il paesaggio sonoro, fatto di echi e suoni nervosi e melanconici, penetrano il cuore di chi osserva e sente, partecipe in un ambiente distante anni luce dal senso comune e da un significato univoco e pre-impostato, ma sorprendentemente carico di emotività.
Abbiamo incontrato a Roma Daniel Blanga Gubbay, membro fondatore della compagnia.
Avevo intenzione di partire da un’altra domanda, ma dopo aver visto il vostro ultimo spettacolo (La prima periferia, NdR), ora preferisco iniziare diversamente. C’è sempre molta dolcezza in tutto quello che fate, nonostante ci sia un rapporto con il corpo fuori dai canoni: ne La timidezza delle ossa viene mostrato parzialmente, ne La più piccola distanza c’è una sua totale esclusione, adesso invece sembra tornare di nuovo ma in una chiave differente. Che rapporto avete dunque con il corpo?
Inizialmente si trattava proprio di capire come poter ripresentare in maniera diversa il corpo in scena, quindi ci interessava quali fossero i limiti di “sottrazione” del corpo, perché ancora fosse possibile parlare di “corpo in scena”. Con La timidezza delle ossa si trattava di velarlo anche fisicamente, con La più piccola distanza di annullarlo completamente ma era il tentativo di far si che quelle forme cosi anonime parlassero appunto sempre di corpo.
Si tratta di sfiducia nei confronti del corpo “attoriale” ?
Più che sfiducia, il problema era un’idea scontata che ci interessava mettere in questione e cioè il fatto che nelle arti performative la presenza del corpo fosse sempre l’elemento da cui si partiva per fare altro, per poi danzare o recitare. Volevamo mettere in discussione un elemento che sembrava molto consolidato, fare un passo indietro rispetto a quello e far si che l’immagine del corpo non fosse già data, ma che fosse “ricostruita” sempre nella testa degli spettatori.
Parliamo di umanità: dopo lo spettacolo mi è venuto in mente che anche privando la scena del corpo, che è un involucro di seduzione, di emotività e di sentimento, siete riusciti comunque a far arrivare una dose massiccia di umanità. Secondo te il teatro serve a questo? Qual è la funzione del tuo lavoro e cosa vuoi che senta lo spettatore quando esce da teatro dopo un tuo spettacolo?
Cerchiamo sempre di creare dei percorsi che siano abbastanza aperti in modo che ognuno possa poi effettivamente riempirli con una carica sia di senso che di emotività. Le immagini su cui lavoriamo sono molto “pregne”, però non necessariamente quello che noi abbiamo rivisto in quell’immagine deve arrivare allo stesso modo allo spettatore. Per noi è una questione di disonestà quasi, nel fatto che un corpo umano presenti un’emozione quando è sul palcoscenico, perché è qualcosa di falso che sta ricostruendo appunto per uno spettatore. A partire da questo, nel momento in cui invece deleghiamo questa funzione ad un manichino, si tratta semplicemente di ricostruire delle angolature e tramite quelle riuscire a far passare delle emozioni.
Tutto questo trascurando un filo logico, perché è chiaro che voi non intendete operare con un senso ma delegate anche questo allo spettatore, è cosi?
Si. Ad esempio nella drammaturgia che costruiamo ogni volta, esistono per noi delle micro-vicende narrative che avvengono all’interno, altrimenti sarebbe privo di senso e anche…
… limitativo?
Molto. Noi non vogliamo mai che ci sia un messaggio unico e chiaro per cui lo spettatore debba semplicemente capire quello che noi volevamo dire: ci piace da sempre l’idea che lo spettatore possa appunto interagire con le forme che stiamo costruendo. Al tempo stesso, l’equilibrio deve essere sempre dosato accuratamente perché se dai troppo poco, lo spettatore non ha nulla a cui affidarsi per poter viaggiare con la fantasia a partire da quello che sta vedendo. Quindi anche per noi ci sono molti nuclei narrativi all’interno del lavoro. Come nello spettacolo che hai visto ieri, ci sono ad esempio molte immagini della storia dell’arte, immagini cariche di senso. Nello scivolamento da un’immagine all’altra, poi, possono acquisire un significato differente per ognuno. Ad alcuni arriva di più il rapporto tra i manichini, altri prestano maggiore attenzione ai nostri movimenti.
La nostra epoca sembra sempre più un’epoca di ossimori, di contraddizioni, di ruoli che si confondono e di forti contaminazioni tra generi diversi e tra figure che, come voi, hanno un differente percorso formativo. Come si fa a scegliere da dove e come partire?
Sicuramente la contaminazione tra le arti da molti anni ha interessato fortemente un certo tipo di teatro, nonostante resista una forma di teatro testuale che è giusto che resista come qualcosa di molto solido. Nella direzione che sta prendendo ora il teatro c’è uno sviluppo costante del video, cosa che ad esempio noi non utilizziamo mai, nonostante ci contaminiamo molto spesso con fonti diverse. Abbiamo una formazione a cavallo tra arti visive e arti figurative, ed abbiamo mantenuto questo non sentirci iscritti totalmente in nessuno dei due ambiti e allo stesso tempo considerare il nostro lavoro in un’ottica prettamente teatrale.
Oltre al talento e al lavoro costante, quali sono state le altre tappe che hanno determinato il successo del vostro percorso?
Noi abbiamo avuto la fortuna di iniziare a lavorare abbastanza presto e di ricevere l’attenzione di Fies Factory One che ci ha proposto un percorso di sostegno per una produzione triennale, permettendoci così di immaginare non un singolo lavoro ma un percorso che si potesse sviluppare. Cosi come abbiamo avuto un sostegno da parte della Socìetas Raffaello Sanzio, che ci ha dato una residenza semestrale, tutte cose che ci hanno permesso di avere uno spazio nostro nel quale lavorare con tranquillità.