Continua, e si conclude, dopo la prima parte, l’intervista aDaniel Blanga Gubbay della compagnia Pathosformel, giovanissima ensemble tra i protagonisti assoluti della scena performativa, di ricerca, ostinatamente contemporanea, del teatro italiano.
Torniamo un po’ più indietro. All’inizio voi vi siete incontrati e poi?
Ci siamo incontrati a Venezia e ancora non avevamo sviluppato una poetica molto definita, ma vedevamo in giro un sacco di cose che non ci piacevano e avevamo molta voglia di provare a far qualcosa. Abbiamo ottenuto un finanziamento dall’Università in cui studiavamo per realizzare un progetto, che era La timidezza delle ossa, e con quel finanziamento abbiamo preso le cose necessarie per realizzarlo. Poi si tratta di farlo vedere il più possibile, quindi partecipare a concorsi etc., ed è andata molto bene perché poi si sono sviluppati i lavori successivi.
Il laboratorio che avete fatto con la Socìetas Raffaello Sanzio è stato tanto importante per voi.
È stato importante soprattutto a livello umano perché abbiamo lavorato con loro tre mesi e si è instaurato da subito un rapporto di stima reciproca molto forte. Quando poi abbiamo iniziato a lavorare dopo La timidezza delle ossa per i progetti successivi, loro ci hanno offerto il loro spazio per poter lavorare a Cesena, uno spazio che è stato necessario per poter sviluppare i lavori venuti dopo. Si è trattato di capire cos’è una metodologia teatrale, di partire da un’idea piccolissima da inseguire in maniera molto tenace, sviluppando tutte le possibilità che ci sono all’interno di questa idea.
Il vostro obbiettivo è che lo spettatore sia parte attiva nell’interpretazione della performance, che si senta coinvolto soprattutto a livello emozionale. Cosa volete sentire voi?
Mente costruiamo il lavoro durante le prove cerchiamo di mettere il maggior numero di stimoli possibili. Nel momento in cui andiamo in scena, invece, facciamo un lavoro molto di precisione, lasciamo poco spazio al’improvvisazione. Ad esempio ne La prima periferia, sappiamo quale inclinazione precisa dobbiamo mantenere. È un lavoro mentalmente molto faticoso nel senso che richiede attenzione e memoria. Quando raggiungiamo i corpi, i momenti in cui siamo tutti e tre su di uno o ci avviciniamo singolarmente, o i momenti in cui dobbiamo raggiungerci reciprocamente, questi momenti sono “fissi”, si tratta sempre di lavorare stando attenti all’incontro con l’altro, nonostante ci sia una componente emotiva mentre lo facciamo. E’ indubbiamente una pratica che ti trasporta molto all’interno del lavoro e la parte più impegnativa è mantenere vivida l’immagine di come dovrebbe essere, per poterla realizzare in maniera esatta.
Nelle teorie sulla creazione artistica si dovrebbe prestare particolare attenzione ad alcune teorie di fisica quantistica, secondo le quali l’intenzione, lo sguardo, provocano dei cambiamenti fisici nella realtà. Seguendo questo cammino, si potrebbe tracciare un parallelismo tra l’incidenza che ha lo sguardo “comune” e l’importanza che acquisisce per un artista durante la creazione di un’opera. Cosa significa questo per te? Che utilizzo fai tu del tuo sguardo mentre lavori?
Per noi lo sguardo modifica completamente il lavoro. Inizialmente è il nostro sguardo, che è il primo ovviamente che abbraccia il lavoro: quando abbiamo un’idea ci permette di capire cosa vogliamo cambiare o meno. Ma il tutto si realizza soltanto quando andiamo in scena la prima volta. Con questo dosaggio tra quanto mostri al pubblico, e quanto invece gli tieni nascosto per lasciarlo immaginare, capisci se tutto è equilibrato o meno ed è anche quello che rende vivo questo lavoro. Il fatto che per quanto io cerchi di ripetere sempre in maniera identica le stesse angolazioni o inclinazioni ogni volta si ha un risultato completamente diverso proprio perché lo spettacolo si sviluppa nello sguardo del pubblico, quindi in questo lo sguardo cambia la visione che c’è sul lavoro.
«[...]compressi quotidianamente in un sistema di immagini unidirezionali che tende a guidare il pensiero[…]». Dalle tue parole intuisco una posizione critica nei riguardi della realtà attuale.
Più che altro non trovo un grandissimo stimolo nel momento in cui si presenta una condizione di disparità. A teatro c’è una persona che sta sul palco e che può dire qualcosa a te che sei seduto e che non puoi rispondere. Pensare che chi sta sul palco ha la possibilità di spiegarti una visione del mondo mi risulta sempre un po’ strano, nel senso che non sviluppandosi come dialogo ma come messaggio unidirezionale, non tanto da un punto di vista politico quanto da un punto di vista comunicativo, il lavoro si allontana da una concezione di fruizione-scambio. Sono critico ma più che altro mi annoio un po’ perché non riesco a far evolvere quell’immagine dal punto in cui mi è stata data.
Nel vostro percorso formativo oltre al laboratorio della Socìetas Raffaello Sanzio, cos’altro è stato importante? Quali sono stati i vostri punti di riferimento, non solo all’interno del panorama artistico ma anche in quello più ampio della storia dell’arte?
Capita molto spesso che gli stimoli che prendiamo per costruire il lavoro non provengano dal teatro ma dalla performing art o da altri contesti della storia dell’arte. Quando abbiamo realizzato La più piccola distanza abbiamo lavorato moltissimo su sperimentazioni artistiche degli anni ‘20 (come ad esempio Malevic), un contesto artistico quindi che prevede una concezione fortemente teatrale della pittura. Mentre più raramente capita che ci siano degli spettacoli che ci ispirino in tal senso. Non perché non ci piace nulla del teatro, ma proprio perché sono prodotti finiti, già formati in una forma teatrale, già dati per qualcosa magari di bellissimo.
“Pathosformel” è un termine che indica un complesso di immagini archetipiche, che si ripresentano in un contesto diverso nel corso del tempo, dando vita ad un connubio tra creazione originale e ripetitività. In un panorama artistico come quello attuale, nel quale si ha la continua e tremenda sensazione che sia già stato fatto tutto, qual è secondo te la soluzione per la creazione di qualcosa, di un’immagine originale?
La questione dell’originalità è dubbia, nel senso che secondo me non bisogna per forza cercare l’originale. Molto dipende dal modo in cui presenti un percorso, dal modo in cui fai di quegli elementi che non sono originali la possibilità di arrivare a qualcos’altro. Anche le immagini che costruiamo negli spettacoli sono sempre le immagini di corpi che magari hai già visto prima, ma è nel farle scivolare da una all’altra che si crea poi il senso di qualcosa di più affettivo, più costruttivo etc., non tanto poi nelle singole immagini in sé, che sono giacenti anche nella nostra memoria e che quindi sono qualcosa che ritorna, che fa parte di un patrimonio umano.
Subito dopo aver visto La timidezza delle ossa, un po’ istintivamente mi sono chiesto il perché della scelta di questo nome e se c’entrasse qualcosa con il fatto che non c’erano attori sul palco. Ho pensato dunque che ci fosse una timidezza ‘vostra’ nei confronti del rapporto col pubblico sul palcoscenico. Come ipotizzi il rapporto con l’attore/performer?
Sicuramente nei lavori realizzati in precedenza c’era questa componente di timidezza e cioè il non essere tanto avvezzi al palcoscenico, proprio perché non venivamo dal mondo del teatro. Abbiamo cercato in un certo senso di fare di questo mancato desiderio di esporsi il nostro punto di forza giacché per noi non era tanto interessante lo stare in scena, neanche ne eravamo capaci. Il termine timidezza voleva indicare non semplicemente un ritirarsi ma un esporsi e nel momento in cui ci si è esposti rendersi conto di essersi esposti troppo e quindi il doversi ritirare di nuovo. Per noi è qualcosa che riguarda sempre l’arte performativa, il fatto che fosse si un’esposizione, ma comunque qualcosa che si esaurisce sempre e rimane soltanto negli occhi di chi l’ha vista. E’ necessario ritirarsi sempre al termine.
Ritirarsi per dare a noi spettatori la possibilità di concludere?
Esatto. Soltanto nel momento in cui un’immagine svanisce rimane nella memoria di chi l’ha vista.