Intervista a Luciano Melchionna

Tra la provincia e la città. Tra la spaesante indifferenza e la differenza (?) mediatica. Tra la vita e la morte. Questo è il cinema di Luciano MelchionnaGas (2005) e Ce n’è per tutti (2009), film di cui abbiamo recentemente scritto. Classe 1967, Melchionna è attore, regista cinematografico e teatrale, sceneggiatore e drammaturgo. Ambivalenze (ma sono poi tali?) artistiche che si fanno strumenti di articolazione ed espressione di profonde pulsioni che trovano eco nelle storie gridate ed intime, collettive e personali, dei suoi film. Capace di dirigere con personalità e funzionalità attori come Paolo Villaggio, Stefania Sandrelli e la sorprendete Loretta Goggi del suo primo lavoro – nomination miglior attrice non protagonista al Nastro d’Argento di quell’anno –, Melchionna è un autore colto e raffinato che ha rappresentato in scena Alberto Moravia e Botho Strauss, ma è anche colui che nel 2005 ha visto il suo primo film vietato ai minori di 18 anni nonostante avesse avuto il sostegno del MIBAC per la distribuzione.

Il tema centrale dei tuoi film è quello dell’inadeguatezza, dell’esclusione dal mondo. I tuoi protagonisti sono uomini soli, emarginati per la loro incapacità di comprendere i propri sentimenti (Gas) o di farli comprendere agli altri (Ce n’è per tutti), ma mentre il primo è un film drammatico a tutti gli effetti, nel secondo hai preferito lo stile della commedia. Ti senti più a tuo agio con uno dei due linguaggi o pensi di aver centrato il tuo obiettivo in entrambi i casi?

Dunque, premettendo che io in genere mi sento a mio agio nel raccontare storie, siano esse “comiche” o “drammatiche”, devo dire che ciò che mi stimola di più nel mio mestiere è il non dover attenermi necessariamente a degli stilemi di genere precisi, ma di spaziare, sperimentare per associazioni intellettuali ed emotive. Con il mio primo film ho sentito l’esigenza di spaccare tutto, di lanciare un grido disperato d’avvertimento, di tirare un pugno al mondo intero per poi fargli sospettare che fosse una carezza appassionata. In questo mio secondo ho voluto raccontare uno stesso disagio esistenziale, o almeno simile, partendo dal genere commedia, facendo cioè il solletico ma solo inizialmente, un solletico nervoso che giocasse sul paradosso per poi, passando per un’altra carezza, tirare uno schiaffo virtuale. Cerco comunque e sempre, prendendomi le mie responsabilità, di dire qualcosa, scuotere me e gli altri con tutti i mezzi possibili, ma non certo per effetto sterile e fine a se stesso. La nonna del protagonista, in Ce n’è per tutti, dice al nipote: “Non servono mica le bombe… ci vorrebbe un po’ di personalità in più… tanti piccoli gesti…”. Ecco, io mi sento così, ho bisogno di esprimermi attraverso tanti piccoli gesti, belli o brutti che siano, comici o drammatici. E comunque Ce n’è per tutti non è una commedia, è stato un errore voler presentare il film come tale.

Paradossalmente, mentre il tuo film più duro lascia uno spiraglio di speranza allo spettatore, con la scena finale della donna che riprende a vivere all’aria aperta, Ce n’è per tutti si conclude con una chiusura, quella della porta del cimitero del Verano, che ci lascia esclusi, rassegnati davanti al destino ineluttabile. Perché questa contraddizione, attraverso il finale, del tono del film?

Ho già risposto in parte a questa domanda, qui sopra. Il tono del film cambia molto prima di arrivare al finale, evolve verso una dimensione drammatica già a metà della narrazione ma quello che racconto alla fine, davanti al cimitero, è l’improvvisa immobilità degli altri protagonisti che, invece di continuare a correre affannati verso il nulla, si domandano cosa fare e dove andare, con il sospetto che lo stare insieme, la condivisione, sia una possibile soluzione che “Gianluca approverebbe”. La speranza è nella sospensione, nella pausa di riflessione da questa corsa frenetica vuota e destinata a precipitare nel vuoto. Alla fine chi è dietro il cancello del cimitero? Loro morti o noi morti viventi?

Mostri sempre con una certa insistenza il cimitero. Alla fine, i protagonisti dei tuoi film (molti e con storie diverse) riescono a trovarsi e a riunirsi soltanto attraverso una cerimonia funebre. Come mai? Che rapporto hai con la morte?

Bella domanda: un rapporto abbastanza difficile, per non dire terribile, pensa che la scena del cimitero in Gas l’ho voluta mettere per trovare il coraggio di entrare in quel luogo, visto che erano anni che non lo facevo: le persone care le porto nel cuore. Io voglio vivere perché devo ancora fare e dire e respirare tanto e non voglio che alla caducità di questa vita si sovrapponga la cecità e la frustrazione degli altri. Voglio vivere e vivere bene, lasciato in pace, lasciando in pace e spronando a lasciare in pace. “…Dovremmo condividere la gioia e alleviare la sofferenza, perché ce n’è per tutti prima o poi…”.

Una delle cose che colpisce immediatamente nei tuoi film è la scelta delle ambientazioni. In Ce n’è per tutti si vedono zone di Roma davvero inusuali, come strade deserte e periferie dismesse. Uno sguardo insolito su una città che, almeno da qualche anno a questa parte, si è fatta conoscere al grande pubblico soprattutto per i suoi scenari più pittoreschi (come Ponte Milvio, per capirci). Come mai quest’interesse per la parte meno “da cartolina” della città?

Non so ma credo che nel tuo paragone ci sia già la mia risposta. Io non trovo interessante raccontare la vita edulcorandola, non amo raccontare una città per come la immaginano gli stranieri, o per come la si deve dipingere se “‘le si vuol bene’”. Io amo Roma, è ormai la mia città, ma proprio per questo ho scelto di fotografarla così come appare ai miei occhi C e questo d’accordo con il mio prezioso direttore della fotografia Tarek Ben Abdallah –, tra l’altro in un periodo dell’anno che la rendesse ancor meno brillante e patinata ma più vera e affascinante: l’inverno. Nel film racconto di giovani ormai trentenni che vivono di lavoretti saltuari e annaspano, pieni di energia ma disorientati, tra difficoltà e gesti inutili… come credere che non vengano da tutte le parti della città, anche e soprattutto dalla periferia? E chi dice che la bellezza non si annidi nei margini, nella verità appunto? Io amo i contrasti e anche in questo film mettere a confronto il meraviglioso Colosseo con una fermata dell’autobus, per esempio, pensata sotto un cavalcavia e in un contesto dimenticato da dio, mi sembrava stimolante anche solo per una primissima riflessione.

Gas è girato nella tua città natale, Latina. Come è stato per te lavorare lì? Ed è stata casuale la scelta di ambientare proprio a Latina, città dai noti trascorsi politici (forse non tanto trascorsi), una storia che parla di violenza sugli omosessuali?

La scelta di latina è legata sicuramente al discorso della provincia e quindi anche a quello politico-sociale ma nasce soprattutto da un discorso affettivo ed estetico: ho amato girare nella mia città d’infanzia e ho cercato di mostrare le zone più belle di Latina, attraverso la sua architettura razionalista che diviene fondamentale nel film per un discorso di linee e volumi che acuiscono il senso claustrofobico e schiacciante che soffio dentro il film. Certo, uno dei protagonisti ad un certo punto dice “non puoi immaginare quanto ho sofferto qui da piccolo…”. Credo che se nella metropoli sia difficile essere se stessi, in provincia lo è ancora di più.

In Gas, il personaggio interpretato da Loretta Goggi risponde al figlio, che le ha appena confessato di amare un uomo, dicendo: “Le cose che fanno paura sono sempre le stesse, e quelli come te fanno paura. Soprattutto quando sono felici”.

Quanto pensi che il cinema e il teatro possano aiutare a far riflettere sulla violenza di cui le minoranze sono vittime ancora oggi?

Ci credo moltissimo e credo che al di là dello “spleen” e della mia smania megalomane ed esibizionista, sia proprio la voglia di gridare e far riflettere che mi spinge ad esprimermi, a sensibilizzare il mondo, nel mio piccolo, focalizzando l’attenzione su temi che scandalizzano dal profondo per crudeltà, ingiustizia e impotenza. Credo molto, ovviamente, nelle possibilità del teatro e del cinema, in questo senso, come credo nella necessità di informare e acculturarsi per aprire la testa il più possibile e smettere di discriminare. La libertà spaventa ancor più chi vive nell’ignoranza e nella paura, chi sa solo seguire il gregge o manifestarsi nel branco, e spaventa specialmente se la si vive serenamente per come si deve e cioè come profonda responsabilità individuale.

Sia per il tuo primo film, Gas, che per il secondo, Ce n’è per tutti, hai scelto come protagonista Lorenzo Balducci, al quale non fai fare una bella fine in nessuno dei due casi. Dal finale delle tue opere emerge una visione decisamente pessimista perché l’eroe triste, la vittima sacrificale di un mondo spietato, viene sconfitto. Credi che, nella società di oggi, il bene sia destinato a morire?

Anche qui ti rispondo che sicuramente mi piace raccontare che il bene non è destinato necessariamente a vincere, come spesso vedo accadere in opere filmiche che non siano cartoni animati o favole, ma racconti di vita con finale consolatorio, oserei dire, per contratto. O perlomeno non è destinato a vincere sempre ma a conquistarsi uno spazio, possibilmente sempre più grande, attraverso il sacrificio di piccoli eroi, nella quotidianità, guardando in faccia la realtà. Non tutti ce la fanno, e quello che racconto nel mio film è che ci sono sensibilità particolarmente fragili, spugne delle percezioni, che possono “scivolare” per qualcosa di impalpabile che spesso, in questa società, non è nulla. Grazie a loro, purtroppo, e grazie alla consapevolezza che il dolore e la violenza scatenano altro dolore e altra violenza, qualcosa lentamente può cambiare o migliorare nella coscienza collettiva. Pessimista è chi distoglie lo sguardo e si racconta menzogne, l’ottimismo invece, a mio avviso, è guardare le cose come sono e rimboccarsi le maniche.

Tu vieni dal teatro dove, prima di diventare regista, sei stato diretto come attore da grandi autori tra cui Luca Ronconi, che definisci il tuo maestro. Ho letto in un’intervista che a volte i tuoi spettacoli sono stati accusati di essere troppo cinematografici e i tuoi film di essere troppo teatrali. Trovo invece interessante proprio la scelta di unire i due mondi. Che importanza può avere oggi, secondo te, intrecciare queste due arti e creare un linguaggio diverso da proporre al grande pubblico?

Io credo che al di là delle differenze sostanziali tra i due mondi, tra i due mezzi d’espressione, alla fin fine, conoscendole bene, quelle stesse differenze si possano far convivere, amalgamare, per dare alla verità un’impronta espressionista che riveli un punto di vista forte e, viceversa, per dare credibilità ad un’esasperazione, ad una stilizzazione codificata, e avvicinarla così al pubblico coinvolgendolo emotivamente di più. Nel rispetto dei due mezzi, io mi esprimo come sento e gioco con tutto ciò che regali un valore aggiunto al mio racconto.

Di certo è facile notare come alcuni dei tuoi attori abbiano un’impostazione teatrale, mentre altri (come lo stesso Balducci) sono nettamente più cinematografici. Come hai lavorato, in questo senso, con loro? Cercavi di appianare le differenze o lasciavi ad ognuno la libertà di seguire le proprie inclinazioni?

L’impostazione più o meno teatrale prescinde dalla preparazione degli attori che in genere scelgo non solo tecnicamente preparati e talentuosi ma anche umanamente raffinati. Gli attori non vanno catalogati come teatrali o cinematografici, a mio avviso, ma considerati come attori e basta, per talento e preparazione. I personaggi nel mio film possono risultare più o meno teatrali, questo sì, ma per mie scelte di caratterizzazione che fan parte dei contrasti che dicevo e dico di amare. Nella vita ci sono persone sopra le righe, eccessive, e persone fragili o schive, comunque sottotono: ecco io mi diverto ad esasperare entrambe le possibilità. Certo, se fosse stato un allestimento teatrale, gli attori avrebbero avuto tutti la componente cinematografica del Balducci – che però ha lavorato anche in teatro dove, ad esempio, l’ho conosciuto e apprezzato nel Giulietta e Romeo di Boccaccini – ma sarebbero stati chiamati a rispettare fino in fondo il mezzo teatrale e i suoi codici di linguaggio, il filtro insomma. Al cinema, invece, o in esperienze ad esso legate (vedi il mio spettacolo Dignità autonome di prostituzione), il lavoro che faccio sugli attori si interrompe prima rispetto a quello per il teatro: analizzo il testo con loro, parola per parola, stando attento a non dare per scontato neanche una virgola – e in questo considero il mio maestro il genio assoluto di Ronconi –, poi tocco tutti i punti emotivi possibili, punzecchiando “maieuticamente” ogni singolo attore, portandolo al limite massimo… ma mi fermo lì, chiedendogli di rifare ogni volta, da solo, lo stesso percorso davanti alla macchina da presa o agli occhi di un pubblico seduto ad un metro di distanza.

A proposito di Dignità autonome di prostituzione, hai avuto molto successo con questo spettacolo in cui trasformi il teatro in un bordello popolato di attori/maîtresse/prostitute in cerca di clienti a cui estorcere denaro in cambio di monologhi. Nel tuo film Ce n’è per tutti ho notato che poni molto l’accento sul tema dei rapporti vissuti come “prestazioni”. Credi che, nella società di oggi, ci si debba saper “prostituire”?

Credo che da che mondo è mondo sapersi prostituire possa accorciare i tempi di costruzione di qualsiasi progetto di vita… ma bisogna sapersi prostituire davvero bene, con il pelo sullo stomaco e la dovuta leggerezza, anche questo è un talento, anche questo o ce l’hai o niente. Quello che sta diventando davvero atroce in quest’epoca è la naturalezza con cui la prostituzione, intesa come compromesso più o meno estremo, sia applicata a tutto e da tutti: questo mi sembra davvero grave perché non ti da più il tempo di capire se ti piaccia o meno, se è un tuo talento oppure no, e nello stesso tempo sembra non darti altra scelta. Devi accettare l’idea di prestare il tuo corpo e la tua mente se non vuoi trovarti o restare completamente fuori da ogni giro, fino a diventare un bel giorno un barbone. Io ho scelto da tempo di combattere la mia battaglia sulla meritocrazia e là dove ho provato a prostituirmi – perché no? – ho compreso che non è un mio talento, non mi appartiene, non mi regala le stesse gratificazioni che invece ricevo dalla mia carriera lenta ma conquistata, passo dopo passo, con il sudore della fronte. Chissà magari un giorno finirò a parlare da solo per strada…

Domanda di rito: i tuoi progetti per il futuro?

In questo momento sto lavorando alla ripresa de La stanza delle donne di Gabriella Schina, con Marianella Bargilli e altre mie preziose attrici, che andrà in scena il 29 luglio per “I solisti del teatro” di Carmen Pignataro ai Giardini della Filarmonica di Roma. Lo spettacolo racconta e descrive il luogo dove le donne più belle venivano recluse e messe a disposizione dei bisogni dei soldati durante la guerra del ‘92 in Bosnia. Uno spettacolo che in soli cinquanta minuti rivela verità taciute e non permette di dimenticare. Contemporaneamente sto allestendo Muraglie di Nello Calabrò per il 12 agosto a Taormina Arte, e anche qui affronto un tema scottante, seppur in chiave comica e surreale: quello della separazione incolmabile e secolare tra i potenti del mondo e le classi sociali “basse” che, sistemando e pulendo sedie e tavolini, permettono loro di riunirsi e “prendere decisioni su tutto”. Il 10 e l’11 settembre sarò al Festival di Benevento con il mio Dignità autonome di Prostituzione che, a metà ottobre, aprirà anche la stagione del Teatro Bellini di Napoli, per poi tornare a Roma sicuramente a febbraio/marzo, al Teatro Italia. Per il cinema sto lavorando ad un progetto top-secret a breve scadenza… e speriamo quindi di parlarne diffusamente al più presto.

Autore: Tommaso Triolo
Pubblicato il 06/11/2014

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