Raccontaci com’è nata l’idea che sostiene il tuo documentario.
E’ un’idea lontana, nel vero senso della parola, e investe un lasso di tempo che ha consentito di arricchire di diverse sfumature il concetto che è alla base di Supermanz. Tutto ha avuto inizio nel 2010, quando il presidente della cooperativa, Tommaso Romani, mi propose di realizzare un cortometraggio assieme ai loro ragazzi, ma, capendo che c’era tanto materiale sul quale poter lavorare, tornai da lui con l’idea di un documentario che fotografasse un momento particolare della vita della cooperativa e degli adolescenti che seguiva. Come si può intuire, la gestazione che ne è seguita è stata lunga e, dal quel momento, sono passati più di due anni prima di iniziare a girare. Da una parte per i classici e ormai persistenti problemi di budget, dall’altra perché ero alla ricerca di un’intuizione che mi sapesse consigliare quale poteva essere il momento giusto per dare il via alle riprese. Inoltre, uno dei motivi di partenza più pragmatici è sempre stato quello di carattere sociale, inserito con la volontà di fare luce su un settore sempre bistrattato dai media e di conseguenza sottovalutato dall’opinione pubblica, che giudica le case famiglia come prigioni e le cooperative onlus come vie di fuga per ingannare la gente. Soprattutto in Italia, tendiamo a fare di tutta l’erba un fascio e Supermanz, per quello che mi riguarda, può diventare una voce fuori dal coro. L’altro aspetto, quello che secondo me è più interessante, ha un tinta più emotiva, sostenuta dalla suggestione e dalla curiosità di voler fotografare un momento particolare della vita di alcuni ragazzi targati dal sistema come “difficili”, alla fine della quale ho provato a porre una riflessione sul concetto di “normalità”. Il desiderio nasceva da una necessità quasi personale di metterli di fronte a qualcosa di nuovo e vedere semplicemente come avrebbero potuto reagire. E’ la chiave di lettura fondamentale per guardare e capire Supermanz: il tentativo di osservare i protagonisti, che comunemente la gente o il settore definirebbero “casi umani”. Con Edoardo Montanari, ho provato in fase di creazione prima, e durante le riprese poi, a pormi con uno sguardo più umano, per consentire agli altri di guardare i protagonisti (e chi come loro, in generale al di fuori dello schermo), come “esseri umani”. Intenzionalmente abbiamo voluto allontanarci da tutte quelle che potessero essere le teorie e i commenti scientifici al riguardo, che sarebbe stato facile, ma fuorviante, correlare al racconto. Siamo partiti dal concetto di “mito”, di “idolo”, una semplice domanda che abbiamo posto ai ragazzi, qualcosa che potesse consentire a chi guardava il documentario di sentirsi più simile a loro e, a dire il vero, da qui è nato quello che si potrebbe definire un “errore di battitura”, ma non lo è, e che ha dato ironicamente il titolo al documentario, Supermanz.
E’ molto chiaro che sia nato un senso di affetto tra i ragazzi, gli operatori sociali, l’attrice e l’obbiettivo della M.d.P. Quali sono stati i passi per poterlo raggiungere? C’è voluto molto per riuscire a stabilire un contatto tra i ragazzi e voi della troupe?
Quando ci siamo avventurati più concretamente nella fase operativa del documentario, sono stato messo in guarda dalla cooperativa, la quale ci ha tenuto più volte a farmi presente quanto sarebbe potuto essere difficile conquistare la fiducia dei ragazzi. In particolare parlo di me, di Edoardo Montanari e di Rosa Diletta Rossi, che durante le riprese saremmo stati quelli più direttamente a contatto con loro. In realtà, è nato un bel rapporto anche con la troupe e si respirava un’atmosfera molto serena. In questo, ci ha aiutati tantissimo il già ottimo rapporto che gli operatori avevano instaurato. Comunque, la preparazione ci ha impegnati circa un paio di mesi, durante i quali abbiamo incontrato i ragazzi diverse volte e in cui abbiamo avuto modo di presentarci, farci presentare e cercare di prevenire per quanto possibile gli imprevisti. In un progetto del genere, però, gli imprevisti sono all’ordine del giorno. Questo, paradossalmente, mi ha aiutato a focalizzare meglio quello che volevo ottenere e a empatizzare maggiormente con i ragazzi stessi, che alla fine non ci vedevano più come gli invasori della loro vita.
Attraverso quali criteri sono state scelte le musiche di accompagnamento del documentario?
Per la natura assolutamente indipendente del documentario, la decisione di puntare su diversi gruppi musicali del panorama italiano indipendente è venuta fuori quasi spontaneamente, poiché l’idea era quella di rimanere fedeli a quest’etichetta, se così si può definire. Quello che mi interessava ottenere con le musiche non era semplicemente un accompagnamento emotivo giusto o gradevole al montaggio, ma anche far emergere uno spirito più corale e diversificato, che poi è il motivo per cui non ho affidato la colonna sonora ad un unico compositore, ma ho preferito avvalermi di vere e proprie canzoni di gruppi diversi.
Quando e perchè si è deciso di intraprendere un cambio del registro discorsivo tra attrice e ruolo, tra attori\\ragazzi (stavo pensando al rapporto tra Marco e Rosa) ed i ruoli a loro assegnati dalla sceneggiatura?
Il cambio di registro è avvenuto precisamente il terzo giorno di riprese. Nonostante le premesse precedenti, ovvero quelle di prevenire quanto più possibile gli imprevisti, quando ci si è trovati di fronte al momento di girare, c’era da subito qualcosa che non mi tornava: troppa finzione, troppe battute “imparate a memoria”. Marco risultava troppo finto e questo aveva creato un muro, non solo con me, ma anche con Rosa. Non stavamo girando un film, stavamo realizzando un documentario con il classico pretesto della “volontaria” e non avrei trovato giusto far dire a Marco cose che magari lui non avrebbe mai detto. Infatti, Rosa inizialmente doveva essere un’operatrice che entrava in cooperativa come volontaria e attraverso di lei avremmo dovuto scoprire questo mondo e interagire con i ragazzi, così come fanno gli operatori quotidianamente. Marco, però, non riusciva a riconoscerla e piuttosto che raccontare realmente di sé, continuava a indossare una maschera che paradossalmente non sapeva tenere nascosta. Io ed Edoardo non abbiamo mai scritto un vero e proprio canovaccio del documentario, proprio per evitare che si notassero delle forzature narrative, ma abbiamo cercato di approcciare Supermanz, così come secondo noi andava fatto, documentando e, quando ci siamo trovati di fronte a questo ostacolo, abbiamo deciso di abbatterlo, svelando innanzitutto il vero ruolo di Rosa. Di conseguenza, le nostre intenzioni hanno assunto un sapore diverso, il documentario si è trasformato in una fotografia senza filtri, così come senza filtri sono stati i ragazzi, inclusi i disagi che si percepivano quando erano davanti alla M.d.P. e noi abbiamo ottenuto quello che stavamo cercando sin dall’inizio.
Secondo te sta cambiando il mondo del documentario nazionale ed internazionale? Se si in che direzione?
Io non sono un documentarista, in verità. Questo è anche uno dei motivi per cui ho deciso di realizzare un documentario. Se guardo a quello che ho realizzato precedentemente, mi riferisco ai miei cortometraggi, Supermanz è quanto di più lontano pensavo potessi realizzare quando ho cominciato. Penso di aver sempre avuto un’attenzione verso il sociale, ma l’ho sempre raccontato attraverso la finzione, con toni surreali, grotteschi. Con questa premessa, la mia considerazione è che il documentario sta diventando sempre di più una forma “interpretativa”, distaccandosi dallo specifico “documentaristico”. Rispetto agli anni precedenti, alle produzioni passate, il documentario oggi tende sicuramente di più ad assumere le connotazioni di un prodotto cinematografico, allontanandosi dalla televisione, che, fino a non molto tempo fa, era il suo maggior canale di riferimento, ammesso che si possa fare ancora oggi una distinzione tra il cinema e la televisione, soprattutto all’estero. Questa “evoluzione” forse fa capo alla necessità da parte di chi si avvicina al documentario di distaccarsi dalle nuove forme di narrazione e i nuovi format che un contenitore come il web assorbe, dove si stanno espandendo sempre di più forme brevi di carattere documentaristico.
Stai già pensando a progetti futuri?
In effetti, dovevo pur avere una scusa per prendermi ogni tanto una pausa da Supermanz, nell’ultimo anno e mezzo. A parte gli scherzi, con la mia società, Grapevine Studio, stiamo portando avanti il mio primo lungometraggio di finzione, una commedia nera dai toni grotteschi e provocatoriamente cinici. Ci stiamo lavorando da tanto tempo, in Italia non è mai facile riuscire a fare qualcosa di diverso e che possa avere, anche solo vagamente, un sapore e un’aspirazione più internazionali e si fa molta fatica a trovare credito non esclusivamente economico. Quindi, da questa necessità nasce l’opportunità di creare un ponte con l’estero, dove, in tutta sincerità, stiamo avendo sicuramente maggiori soddisfazioni. Oltre al film, abbiamo in prospettiva la realizzazione di una web series e un paio di cortometraggi, mentre io, personalmente, sto finalmente cominciando a ritagliarmi un pò di tempo per rimettermi a scrivere qualcosa di nuovo.