Supermanz

“Ero un disadattato. Un bruscolo nell’occhio del mondo”

Groucho Marx

Nella giovane età in fiore, quando ognuno di noi prova a crescere e germogliare, a non soccombere di fronte al caos che internamente lo stravolge, spesso si prova a fuggire, altre volte a rifiutare, molto spesso ci si lascia solo trasportare dagli eventi. Non importa se in questo percorso si è tristi, felici, consci, o se si abbia anche solo un minimo di consapevolezza nella propria forza, si resta comunque disadatti quando lo si affronta, sempre e comunque. Certamente non ci si sente preparati al flusso d’energie che in noi stessi iniziano a prosperare. Se quando si è in fiore si nasce su terreni aspri e ventosi, contornati dal veleno della sopravvivenza, a volte violenta, altre volte inaccessibile, l’ambiente socioculturale che ci circonda si restringe e il fiore produce spine, si difende dal vento, si adatta restando inadatto: si fa isola nel silenzio. O si diventa grandi o si diventa supereroi, ma non come i classici che tutti conosciamo ed ammiriamo, neanchè come i loro più nobili antagonisti, più che altro si resta in potenza, supereroi inespressi, o quantomeno differenti: SupermanZ, appunto, giacendo nella “realtà dove la Z è il dritto e la S il rovescio”. Ma se si rovescia un fiore sempre un fiore resta. E tutto quello che segue questa stagione è maturità, ed a volte si può diventare fiore senza possibilità di ritorno, già fatto, già maturo, spinoso, senza nessuna nuova primavera a ricordargli di quanto fragile, in passato, potesse essere stato.

Supermanz, documentario di Riccardo Papa, presentato ed in selezione nell’ultima edizione del Riff, segue la vita della cooperativa Epoche, dei loro operatori e dei giovani ragazzi accolti nella loro casa famiglia, nella speranza di ridare ordine al loro intimo caos. Giovanissimi ragazzi, ancora minorenni, ed altrettanto giovani-adulti operatori si presentano, discutono, si raccontano sotto la lente oggettiva del modus documentale, ma non solo. Infatti, non c’è solo oggettivismo, cioè quella sterile analisi entomologica propria del classicismo documentarista, ma passione ed adiacenza al punto di vista sia della Onlus sia dei ragazzi stessi. D’altronde non si riesce molto facilmente ad essere testimoni del racconto quando si è trascinati dall’avventura della casa famiglia. L’obbiettivo è sullo stesso piano del mostrato, dalla stessa altezza dello sguardo umano ci si immerge dentro l’ibrido di un soggettivismo che non è finzione. Pericolo questo fortunatamente sventato, presupposto iniziale necessariamente non preso in considerazione. Questo traspare dalle prime immagini del documentario, in cui si presenta l’attrice Rosa Diletta Rossi, che ci racconta della difficoltà assunta nel catalizzare a pieno l’unità discorsiva ed interpretativa attraverso le parti inizialmente assunte dell’attore-operatore sociale e del ragazzo-disadattato. Quindi tutto viene sciolto (scelta saggia), naturalizzando le parti, togliendo le maschere dal personaggio affinché ognuno si possa sentire libero di rappresentare neint’altro che se stesso. Allora tutto funziona al meglio, lontano da pedagogismi sterili ed abusati. Si procede quindi parallelamente, attraverso nozioni e definizioni del disadattamento giovanile da una parte, mentre dall’altro si lascia il racconto sciolto da qualsivoglia impedimento o definizione, dando voce, volto e cuore, sia ai ragazzi, testimoni di una vita vissuta in crescita da outsider, sia agli operatori, ragazzi anch’essi ma più maturi che cercano di leggerne i silenzi, di ascoltarne le grida sommesse, di unirne i puntini del caos, tracciandone infine una figura che spesso i ragazzi stentano a riconoscere da soli. Lo stesso fa l’occhio discreto del regista, li accompagna per mano nel mondo socioculturale che hanno dimenticato di abitare. Se ne raccontano le difficoltà, quelle legate al mondo interno e privato, di ragazzi che se non vorranno lasciare entrare nessuno, nessuno riuscirà mai a farlo. Ed i protagonisti sono loro, i giovani in fiore, fragili e forti, sognatori spesso sordi al tentativo di comunicazione, incapaci di trovare definizioni per il sussulto della loro giovinezza. Un operatore definisce l’importanza data al saper dare un nome alle proprie emozioni, ai propri sentimenti, ricordandoci che il mondo senza definizioni spesso coincide con il caos. Ragazzi occlusi da identità di periferia, legati a quartieri instabili quanto i loro rispettivi nuclei famigliari, ragazzi come marosi senza una spiaggia sulla quale sfogarsi. Identità dove a volte può regnare il silenzio della comunicazione incapace di definizione, dove altre volte possono regnare le grida fatte di definizioni sbagliate, insensate, urlate; mentre a volte invece la richiesta di aiuto coincide con la fuga, dalla casa famiglia, un’attenziona voluta in più, come un salvataggio dell’ultimo minuto che coincide con un interessamento da parte dell’altro che è piccolo miracolo quotidiano. Il tutto accompagnato da una selezione musicale giusta, azzeccata, usata come collante di racconto, indie in quanto indie, propria di una presenza in regola alle definizioni emotive del tema trattato, mai eccessiva nonostante risulti visibile, protagonista empatica, contemporanea compagna di viaggio nel giovane mondo della casa famiglia.

Il regista si dimostra capace di raccontare la realtà ma anche di manipolarla attraverso una messa in scena calibrata (non è un caso che il regista non abbia finora fatto documentari corti), dove la finzione del racconto, attraverso l’attenzione alle forme dell’immagine, procede di pari passo con la realtà mostrata, procedendo in un doppio viaggio, documentale e soggettivo, finzionale ma mai siffatto. Questo a dimostrazione di un intento ultra-contemporaneo, proprio del mondo del documentario odierno, dove l’inchiesta reale, fredda e oggettiva, risulta incapace di veicolare nuovi modi di raccontare il “materiale reale”, capace di sciogliersi solo se dietro allo stesso, si possa riscoprire un’identità-anima del mezzo cinematografico, definendone così la magia che lo sorregge attraverso una scelta calda e soggettiva, lontana da soluzioni puramente dimostrative. Lodevole documentario realizzato con la partecipazione collettiva del crowdfunding, attraverso la piattaforma Produzioni dal basso e Grapevine studio, casa di produzione fondata dallo stesso regista.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 18/08/2014

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