Intervista a Stefano Petti

Premio Speciale della Giuria e Premio Avanti! all’ultimo Festival di Torino, ve lo aspettavate?

Per me e Alberto questa è un’opera prima, quindi eravamo molto prudenti; a Torino non immaginavamo questa accoglienza e tutti questi apprezzamenti, al di là dei premi, perciò abbiamo mantenuto una specie di distacco, ma in cuor nostro abbiamo sempre saputo di avere tra le mani una storia unica. Sarebbe stato un peccato sprecarla o raccontarla nel modo sbagliato, senza individuare la chiave narrativa giusta, che esula da Pasolini pur evocandolo ripetutamente attravaerso il vissuto di Alberto e i personaggi che incontra nel suo viaggio…

Partiamo dalla fine, dalla motivazione del Premio: “Un film che incarna nell’oggi la poetica pasoliniana…”, quanto sopravvive oggi, secondo voi, della Roma “borgatara” raccontata da Pasolini? E se non dovesse più esistere, a più di 50 anni di distanza, cosa ne sopravvive?

Beh, oggi temo davvero poco… ci sono dei riflessi remoti nei racconti e nelle reminiscenze comuni di Alberto o di Vinicio Marchioni, o ancor prima nelle testimonianze di strada di personaggi unici come Tarzanetto, il piccolo fabbro cresciuto da Pasolini, imbevuto di tradizioni, leggende e storie collettive della Roma di un tempo. Viceversa la memoria di Pasolini, quel modo di leggere e annusare il mondo delle borgate, con i suoi istinti e le sue tragedie pulsanti, sembra sempre spuntare dietro l’angolo quando ad esempio Costantino Meloni, ex enfant prodige del cinema italiano (al fianco di mostri sacri come Nino Manfredi e Alberto Sordi), ci racconta oggi delle sue battaglie quotidiane per la sopravvivenza in borgata, dei suoi sogni di riscossa… Certo penso che i punti di contatto con l’attualità non andrebbero letti solo in un’ottica sociale, parliamo di vicende umane, volti e sguardi che parlano da soli, maniere immediate e modi di vivere che in certi casi si sono modificati nel corso del tempo – come ci raccontano Apo, Kesh e Lil’Flame a Tor Bella Monaca – in altri no.

Facciamo un salto temporale all’indietro, come è nato Fatti Corsari?

Fatti Corsari ha avuto una incubazione e un processo di lavorazione molto lunghi e sofferti, passando attraverso vari stadi creativi, sospensioni, ricambi e vicissitudini produttive (l’abbiamo interamente sostenuto e prodotto io e Alberto). In principio, ormai più di due anni fa, volevamo raccontare il lascito di Pasolini attraverso la curiosa vicenda di Alberto, odontotecnico di borgata appena scelto a teatro per interpretare PPP nello spettacolo Delitto Pasolini… accompagnandolo in un percorso di ricerca, un tragitto “controllato” sulle tracce di Pasolini. Solo dopo molti mesi abbiamo maturato che questo documentario doveva raccontare la storia personale di Alberto, la sua anima irrequieta e la sua soggettiva intima (espressa magicamente con la voce off), sfiorando la memoria sentimentale di Pasolini. Fatti Corsari, nonostante i vari richiami pasoliniani, è un documentario sul mestiere dell’attore e sul sogno ostinato di Alberto. Questo nuovo baricentro c’è sembrato peraltro l’unico modo per evocare Pasolini senza ributtarlo nella mischia della documentaristica: non a caso i punti di contatto sono emersi da soli nel corso delle riprese. Ricordo anche una riflessione molto bella di uno dei selezionatori del festival di Torino, la sera dell’anteprima: a volte l’utilizzo che facciamo di Pasolini può sembrare quasi un MacGuffin hitchcockiano, un espediente a servizio della vicenda narrativa di Alberto, che appare e scompare nel vortice della sua ricerca ostinata. Son convinto che non abbiamo abusato in modo retorico della figura ingombrante di Pasolini, di certo abbiamo convissuto con il suo fantasma scomodo ma non lo abbiamo mai “sfruttato”, in un periodo in cui – come dice spesso Alberto – Pasolini è diventato come l’acquasantiera, tutti ci mettono le mani, tutti lo citano a sproposito. Questo documentario non voleva confezionare messaggi o fare bilanci retorici, non voleva essere un documentario sociale pur raccontando tante tragedie, rivalse e tormenti sociali di una borgata romana.

Istantanee fotografiche, interviste, piani sequenza in steady finzionali, materiale radiofonico, immagini di repertorio, tutto orchestrato molto fluidamente. Quanto è stato difficile lavorare su tanto materiale polimorfo?

Credo (e spero) che ci siamo riusciti con molta testardaggine, incuranza delle regole classiche del documentario e grazie al talento, la capacità di sintesi e una profonda conoscenza della drammaturgia narrativa di Pierpaolo De Sanctis, il montatore del film, che ha seguito a fianco a noi tutta la struttura narrativa di Fatti Corsari. Pierpaolo pur non partecipando alle riprese ha avuto un ruolo centrale nella riuscita di questo documentario, proponendo delle soluzioni rischiose che si sono rivelate vincenti. La sfida era tenere insieme tanti livelli narrativi diversi, senza trincerarsi in un genere ma ritrovando sempre la centralità nel personaggio di Alberto, nella sua fisicità, oltre che nel suo sguardo sul mondo.

Avete già pensato a quale soluzione distribuitiva affidare il lavoro? Dove, come e quando lo spettatore può tornare a vederlo?

Da gennaio partiamo all’attacco, in passato abbiamo seminato molto attraverso il sostegno esterno di una società di produzione, la Berta Film di Stefano Mutolo, che ha creduto fin dall’inizio al progetto e ci ha accompagnato in questo viaggio di due anni presentandolo nei principali mercati europei (Cannes, Locarno, Amsterdam ecc.). All’estero la strada è più facile, il mercato è più ricettivo, in Italia proseguiremo la strada dei festival o delle proiezioni speciali segnalandole sul nostro sito www.fatticorsari.it

Cosa significa per voi la parola auto-produzione letta all’interno dell’attuale panorama cinematografico indipendente italiano?

Beh forse è un modo di far cinema un po’ corsaro…Questo documentario è stato un parto doloroso, ma andava fatto. Ci sono stati momenti della lavorazione in cui stavamo davvero boccheggiando, bisognava decidere se sospendere la lavorazione o incaponirci e andare avanti fino alla fine (per fortuna Alberto è testardo quanto me, non molla mai). Ho un po’ di difficoltà a raccontare lo sforzo e i sacrifici che ci siamo dovuti sobbarcare per portare a compimento le riprese di questo progetto: peraltro non ci siamo fatti mancare niente, dai cameracar alla steadycam professionale, coinvolgendo professionisti del settore come Eugenio Barzaghi (anche codirettore della fotografia) e Cristina De Carolis, straordinaria macchina da guerra nel reparto produzione. L’autoproduzione in certi casi oggi è diventata una necessità, ma va pianificata in modo intelligente, non dev’essere sinonimo di superficialità o noncuranza organizzativa… anche quando le riprese sono organizzate all’ultimo secondo o procedono in simbiosi con la vita dei personaggi, nel nostro caso Alberto, devono ammortizzare i problemi e pianificare le altre riprese in accordo con la fase aperta di montaggio. Di sicuro non si riesce a finire un documentario di 80 minuti con decine di personaggi e figuranti, svariate location in tutta Roma se non si riesce a motivare una squadra affiatata di persone.

L’affetto e i premi di Torino sono stati un risarcimento bellissimo.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 20/08/2014

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