Il mondo dello spettacolo
è un mondo di merda
Enzo Del Re
Enzo Del Re è personaggio che da solo vale un documentario. È personaggio che da solo vale tutto il cantiere che lavora e intorno a lui viene eretto; da solo vale Io e la mia sedia. Nasce a Mola di Bari nel 1944, muore nello stesso luogo nel giugno dello scorso anno. Cantautore – cantastorie a voler esser rigorosi – che ha ragion d’essere solo all’interno del suo contesto storico: fuori è nulla, dentro fu seguito da un esercito passionale di pugni chiusi. Erano gli anni ’70, quelli di Lotta Continua e delle serate di Pino Masi; Enzo Del Re ogni giorno comprava tutti i quotidiani dell’area di sinistra, non tagliava mai i capelli perché la cosa “lo distingueva” dalla massa, lasciava che la sala intenta ad ascoltarlo pian piano si svuotasse lentamente, annoiata dai suoi minuziosi racconti sulle sue origini molensi. Uomo di ferrea coerenza, arriva al crepuscolo con la stessa ostinata intransigenza, disgustato dalla società che intorno a lui ha visto modellarsi sulle ceneri del sessantotto. Con le sue percussioni ha continuato ad attraversare il paese nel tentativo – che senz’altro può dirsi riuscito – di cantarne dal suo punto d’osservazione: parziale e apertamente schierato, condivisibile o meno, ma eternamente schietto. Con un utilizzo degli strumenti che pare un elogio d’arte povera – capace di coniugare tradizione e innovazione in maniera surreale – il cantore barese è caduto per lungo tempo nell’oblio della dozzinale memoria dell’opinione pubblica di questo paese, salvo tornare alla ribalta – una ribalta da lui mai inseguita – in occasione del concerto del primo maggio 2010, al fianco di Vinicio Capossela, straordinario interprete di un tempo squallidamente meno avvincente.
Angelo Amoroso d’Aragona – che con il protagonista condivide le origini pugliesi – realizza un documentario audace, che azzarda se non stilisticamente quantomeno per la tematica: personaggio ai più sconosciuto, ma che pian piano sa conquistarsi ammirazione e simpatia, nel corso di una visione che procede con forse eccessiva indolenza, basandosi eccessivamente su due/tre spunti difficilmente dimenticabili del suo protagonista, che in breve demolisce il mondo dello spettacolo con poche parole, dirette e taglienti come la sua musica. Personaggio oggi probabilmente quasi anonimo, ma chi con lui ha condiviso la scena si affretta nel correggere il tiro: “All’epoca non era fenomeno di nicchia, la gioventù degli anni settanta lo seguiva per sentirsi rappresentata”. Un documentario che avrebbe potuto – probabilmente – dar ancora più voce alla caparbietà di questo artista, rafforzando quei connotati che più d’ogni altra cosa legittimano l’esistenza di Io e la mia sedia.
Ma chi è oggi Enzo Del Re? Domanda che dentro di noi sorge spontanea mentre immagini di repertorio scorrono davanti ai nostri occhi. Domanda la cui risposta rappresenta uno dei passaggi più interessanti dell’intero lavoro: è un uomo che combatte per la sopravvivenza, ancora oggi con principi inestirpabili, che vive dall’alto della sua pensione di invalidità che di poco supera i trecento euro, che aggiunti ai sessantacinque di pensione sociale rappresentano il suo modo di tirare avanti. Ma di un lamento neanche l’ombra: “Non ho mai cantato per la pensione” – dice – “ma solo per la Rivoluzione”. Da personaggi come Enzo Del Re abbiamo sempre molto da imparare.