Da'wah
L'invito a trascorrere una giornata in un collegio islamico per aspiranti guide religiose
Insostenibile leggerezza quella rappresentata dal documentario Da'wah di Italo Spinelli, perché nella discrezione e semplicità realizzativa di interviste e pedinamento di persone persegue l'audace impresa di testimoniare l'esistenza di una sorta di "isola che non c'è" nel cuore della cultura islamica, quanto meno sconosciuta ai più e senza dubbio oscurata dalla ridondanza e speculazione mediatica del terrorismo estremo. Spinelli filma la vita quotidiana all'interno di un "pondok pesantren" in Indonesia, un collegio islamico, frequentato da studenti dai sei ai diciotto anni, dove si studia per diventare guide religiose, e attraverso le parole misurate di quattro adolescenti ne esplora i sacrifici e i sogni. Nel collegio di Dalwa, nella provincia orientale di Giava, i giovani Rafli, Masduqui, Yazid, Shofi ogni giorno si svegliano prima dell'alba e dopo aver ordinatamente provveduto alle purificazioni preliminari alla preghiera, s'apprestano allo studio del Corano e dell'arabo, ma anche della matematica, dell'economia, dell'informatica e delle lingue straniere, soprattutto si dedicano ad una autentica interpretazione e messa in discussione dei dettami della legge e delle sue derive. Solo l'esecuzione degli esercizi fisici all'aria aperta, assieme a tutti i compagni, spezza il rigore dei modi e dei rituali, lasciando trasparire spensieratezza dalla profonda disciplina.
Nella linearità descrittiva, sono proprio le panoramiche allargate e le prospettive dall'alto sugli ambienti condivisi dalla moltitudine di ragazzi tutti di bianco vestiti, manto candido che copre gli spazi quasi a perdita d'occhio, a conferire alla visione un senso di incontaminata e insperata innocenza mai perduta. Qui tutto il cuore dell'opera, che squarcia l'ormai imperante convinzione e condizione di inestricabile violenza unita al più cieco fondamentalismo religioso, all'addestramento al martirio indiscriminato dei suoi figli, arruolati in nome di Allah contro l'Occidente. I ragazzi, dai volti limpidi e sguardi cauti, apprendono dai propri insegnanti che l'Islam è la prima vittima dell'Islam stesso, quando non colto nella sua originale concezione di rispetto del prossimo, quando travisato e piegato ad interessi di altra natura, che non siano pace e tolleranza. Miti falsi, ma viscerali, sono abbarbicati e si propagano intorno alla Da'wah, letteralmente "l'invito" a voler abbracciare la fede e la parola delle scritture, orientamenti e comportamenti etici di vita e comunità. Emblematico l'uso improprio, eppure definitivo, dell'appellativo "infedele ", che il Corano bandisce dalla lingua parlata e rivolto a chiunque, nella possibilità che persino in punto di morte si possa come ultimo atto di vita incontrare la fede. Su tutto però domina l'ignoranza diffusa, male di tutti i mali, vaso di Pandora ancestrale di tutte le culture, laiche e integraliste.
Quando i ragazzi tornano a casa dalle loro famiglie, in pausa dalle lezioni, quando i ragazzi svestono gli abiti da novizi per indossare una T-Shirt, la cornice contestuale si sgretola sotto una umanità universale, a-temporale e glocale, così tangibile e vicina, indifferente al progresso generazionale che segna i decenni, le epoche, le guerre geopolitiche, le ricostruzioni, la povertà prima educativa e poi economica. Da un lato i ragazzi, figli del proprio tempo, di internet e dei miti del calcio, evadono con la mente verso mete lontane (l'Egitto o la Germania) e vagheggiano di poter un giorno incontrare Valentino Rossi, dall'altro i genitori vogliono salvare i propri figli dall'analfabetismo e dalla brutalità. Tutti i genitori si sacrificherebbero nella miseria, pur di redimere da questa i propri figli, soprattutto la miseria di spirito. E i ragazzi se ne sentono ben investiti, ciascuno sulle proprie spalle non sente solo il volere dei padri, ma il volere dell'immenso insegnamento di cui ogni giorno con costanza si nutrono, la missione di riscattare il proprio credo con la non violenza, che non è l'altra guancia cristiana, bensì l'irriducibile consapevolezza che pur se tutte le civiltà sono il prodotto di guerre, le guerre non possono che chiamare altre guerre, il sangue altro sangue. Ciascuno sa che il proprio destino è dunque già segnato da incomprensione, sospetto e odio d'appartenenza, ma la loro formazione li tempra alla moderazione, al perdono e all'utopia, oggi più che mai davvero insostenibile, della fratellanza dei popoli sotto il nome di Allah, oltraggiato da suoi stessi figli, che qui come altrove, ancora "... non sanno quello che fanno!".