L’idea di un regista che pensa e realizza il suo film con la flebile certezza di voler trasmettere la sua idea di mondo, e quindi rendere universale il suo personale modo di vedere le cose – lo faccio e lo penso io, quindi è così – lascia da sempre il tempo che trova. In ognuno di noi, in ogni nostra personale visione della vita non c’è mai, o non dovrebbe esserci, un’oggettivazione collettiva e massificata delle cose, un po’ come delucidava Fabrizio de Andrè all’inizio del suo necessario concept album Non al denaro, non all’amore né al cielo tratto dall’antologia di poesie di Spoon River di E.Lee Masters, ne Il Suonatore Jones: “In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità, a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa”. Come a dire, non abbiamo mai la medesima visione della medesima cosa – che sia un film, un libro o una canzone – proprio perché diverse sono le esperienze che hanno formato il nostro sentire. Ciò che per alcuni è semplice polvere, per altri è movimento e impulso artistico. Ciò che un artista dovrebbe fare nel creare la sua opera – per dirla con Fellini – è semplicemente mostrare e non dimostrare, lasciando che l’opera si sedimenti dentro coloro che ne fruiscono, lasciando che l’opinione sbocci libera e naturale.
Ed è proprio quest’ultima parte che viene in mente dopo la visione di Italy: Love it or leave it, della premiata coppia Gustav Hofer e Luca Ragazzi, che dopo la pluripremiata e acclamatissima opera prima Improvvisamente l’inverno scorso, tornano ad affrontare i temi a loro (e a noi) più cari, stavolta in veste di pendolari lungo l’italico stivale a bordo di una Cinquecento prima maniera, a caccia appunto di un motivo per restare, o meno, in questo paese. E quindi ecco che i nostri viaggiano tra Torino, visitando l’operaia Fiat in cassa integrazione a zero ore, con una casa e un figlio da mantenere; a Omegna, a (non) vedere la mitica Bialetti, piegata e genuflessa al dio denaro e delocalizzata in Romania, oppure in Puglia da Nichi Vendola, che infonde voglia di esserci in questa Italia, e combattere per renderla migliore, come pure ad ascoltare la preziosa testimonianza dello scrittore siciliano Andrea Camilleri, che in pochi minuti ci regala una riflessione difficile da dimenticare. E non è un documentario per soli stranieri come il titolo vorrebbe far intendere, o almeno non solo per essi. Centrano l’obiettivo, ancora una volta, non mostrando il fianco ad una possibile sequela di luoghi comuni, del tipo l’Italia è bella perché è colma di opere d’arte o di buon cibo o di una gloriosa storia, solo ironicamente accennati nel narrato e di cui si fanno anzi beffe, svincolandosi dal costruirci attorno la loro storia. Forse questo Italy: Love it or leave it ha un respiro più militante, politicamente parlando – mentre nel precedente il cerchio si restringeva essenzialmente su una fotografia della condizione degli omosessuali e delle coppie di fatto sotto un governo di centro-destra, e della labile opposizione della sinistra a tutto ciò, con quel necessario progetto che erano i DICO abortito ancor prima di combattere – essendo costruito il tutto sui loro continui, impellenti e ineluttabili battibecchi ideologici ed esistenziali, che risultano però la formula giusta per dare al documentario un’aurea di genuinità e verosimiglianza. Costruito montando filmati d’archivio delle teche Rai e con un’animazione mai didascalica e fuorviante, il risultato finale è raggiunto anche costruendo attorno alla 500 la metafora di un periodo d’oro del nostro paese, che da qualche anno ormai stenta a riconoscersi. Come sarebbe per ognuno di noi confrontarsi con la fidanzata o con un amico sulle ragioni del restare, poche, o andare via, molte, e anche se alla fine i due una scelta la fanno inevitabilmente, ciò che si sedimenta dentro di noi, che resta e scava pensieri – forse – è che alle volte ci fossilizziamo sugli aspetti negativi della vita e del nostro paese, più che sugli aspetti positivi e ciò che ad un certo punto del doc il priore di un abbazia pugliese dice: “Un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce”. Senza dubbio la frase è d’effetto, e fa pensare anche, ma verrebbe da rispondere al caro priore che la disoccupazione giovanile è arrivata al 29 per cento in tempi non sospetti, uno su tre non lavora, e quindi difficile inquadrare bene a quale foresta il priore, e i nostri con lui, fa(nno) riferimento.
Piccoli dettagli comunque, in un prodotto che ha avuto lo stesso percorso che ha portato alla coppia, nel lavoro e nella vita, lo stesso inizio toccato in sorte al loro primo documentario, e cioè il miglior premio all’ultimo Milano Film Festival, oltre al passaggio ai festival di Rio de Janeiro, Annecy e Helsiniki. Chissà. Attualmente in programmazione al Politecnico Fandango di Roma – proiezioni prorogate fino al 25 gennaio –, in vendita/noleggio su ITunes, il documentario passò in settembre in un orario improbabile su Rai tre, da far impallidire Fuori Orario di Ghezzi. Insomma, un plauso va ancora una volta alla necessaria realtà del collettivo Zalab per la sua instancabile opera di distribuzione di opere raffinate e pregnanti, il solito percorso angusto e sotterraneo in un’Italia che non vuol ancora mostrare se stessa, anche dopo la tanto attesa fine dell’edonismo berlusconiano (?), che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di cadaveri; questo sì, pura realtà oggettiva, comunque la si pensi.