I fratelli Sisters
Audiard scommette sull'incursione western e ne esce vincitore, tornando a riflettere sulla violenza all'interno del rapporto tra wilderness e civilization.
Indomito, Jacques Audiard. Tra i registi europei più inquieti, mutevole ma fedele a sé stesso, costantemente in cerca di un’emozione incontrollabile e in qualche modo dirompente dentro codici sempre diversi. I fratelli Sisters, incursione western girata in Europa con cast hollywoodiano di primo livello, è ancora una volta un film sulla violenza come tara genetica, portato familiare che inquina il sangue e la mente, e sulla necessità di controllarla per trovare un nuovo equilibrio.
Come tanti altri personaggi di questo cinema, i fratelli Sisters – in particolare il Charlie di Joaquin Phoenix – sono uomini afflitti da uno scarto interiore, una dimensione brutale che vive sepolta dentro di loro condizionandone scelte e destini. Lanciati in un viaggio imprevedibile oltre le loro consone griglie morali, i due fratelli, assassini a pagamento per lo spietato Governatore (Rutger Hauer), verranno influenzati dall’incontro con Warm (Jake Gyllenhaal) e Morris (Riz Ahmed), rispettivamente un dandy con il mito di Thoreau e uno scienziato mosso da utopie anticapitaliste, due sognatori incompatibili con il mondo e la sua violenza. Sarà soprattutto il fratello maggiore Eli (straordinario John C. Reilly, qui anche produttore) a riscoprire la possibilità di una vita diversa, di una morale diversa, riappropriandosi del ruolo di fratello maggiore dopo che Charlie ha guidato entrambi per anni dall’uccisione del padre alcolizzato e violento.
Immerso nelle atmosfere picaresche che caratterizzano il romanzo di partenza (di Patrick deWitt), I fratelli Sisters è un film che oscilla con inaspettato vigore tra i registri del comico e del tragico, alternando lunghi dialoghi dal sapore pulp a momenti drammatici che colpiscono inaspettati e nel profondo. La scrittura sopra le righe ricca di battute brillanti e situazioni ironiche si rovescia in snodi tragici di grande intensità emotiva, stazioni di un percorso interiore che porterà i due fratelli a riscoprire la loro umanità verso un finale familiare di fordiana memoria e bellezza. Audiard del resto non lavora particolarmente sulla riconoscibilità del western, sui suoi elementi costitutivi più iconici e leggendari – e questo è particolarmente evidente nel modo in cui il regista francese gestisce lo spazio, importante nel collocare i protagonisti ma mai veicolo di un vero omaggio al genere. Dove la tradizione western rientra prorompente è nel rapporto tra i personaggi e nel modo in cui tra di essi si sviluppa la dialettica chiave del cinema del West, l’incontro e contrasto tra wilderness e civilization, dicotomia che il film scardina dalla consona relazione tra civiltà e vita selvaggia interiorizzandone gli estremi nel cuore dei personaggi. Ciascuno dei quattro protagonisti infatti, in misure e modalità diverse, vive il conflitto tra questi due poli e si pone in cerca di una soluzione, di un equilibrio tra le necessità naturalistiche dello spirito e la realizzazione nel tessuto sociale, il bisogno di sostentamento e l’ideale utopico di un modello di vita alternativo, la fame gretta e terrigna guidata dalla violenza e il ritorno ideale al tempo dell’infanzia, all’era dell’innocenza.
Sono in particolare i due fratelli a vivere questo contrasto fino a farne la leva che cambierà le loro vite. Perché forse è ancora possibile dismettere i panni che i padri ci hanno cucito addosso, forse è ancora possibile un confronto con la propria oscurità che non sia una resa incondizionata e priva di speranza, forse è ancora possibile tornare bambini, tra le braccia della propria madre, tra le mura della propria casa d’infanzia, per ripartire da zero e cercare di essere qualcos’altro. Qualcosa di meglio.