Joker: Folie à Deux
Non c'è più spazio per lo spirito anarchico del primo film, questo sequel mette in scena la tragica storia di un uomo in lotta con sé stesso, incapace ora di rifugiarsi nel calore e nella sicurezza delle sue (passate) fantasie.
C'è un'immagine, che più di tutti gli eventi del primo film, sintetizza le istanze e lo spirito anarchico del Joker originario. Quella in cui Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) nelle vesti del mefistofelico clown, accoglie a braccia aperte la follia in cui sta sprofondando collettivamente la città di Gotham, mentre si erge in piedi sul tetto di un automobile. Un'inquadratura, questa appena delineata, che per quanto sia risultata emblematica delle logiche e delle tematiche che Todd Phillips ha voluto esplorare con il lungometraggio del 2019, non avrebbe più alcun posto nel suo sequel diretto: anzi, potrebbe apparire anche incongruente, se non addirittura anacronistica, sia con i tempi in cui si trova la storia del protagonista, sia per ciò che il cineasta desidera esplorare in Joker: Folie à Deux. Tanto che in questo seguito, presentato in Concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia, le traiettorie verso cui si dirigerà il (tragicomico) clown dei fumetti DC lo porteranno sì a mettere in questione la sua stessa identità (di eroe anarchico, così come di uomo ridicolo) ma soprattutto permetteranno – o forse, costringeranno – il film a deviare dalle idee e dai registri adottati nel precedente lungometraggio, per poi traghettare il racconto verso un orizzonte perlopiù inedito: sia in termini puramente di genere (con il musical che subentra ora al thriller urbano) sia per quel che riguarda il tono e le tematiche che Phillips ha desiderato qui ribadire, al di là di qualsiasi preconcetto o formula precostituita.
Sin dall'incipit, Joker: Folie à Deux sembra voler frapporre un argine tra ciò che andremo ad assistere nel racconto, e gli stilemi che hanno caratterizzato, portandola al successo planetario, la precedente origin story del 2019.
Dopo un prologo animato, tratto da un fittizia serie tv realizzata in onore del sanguinario pagliaccio, il film entra nel mondo soffocante della prigione di Arkham, luogo e dimensione dei desideri, delle fantasie e, naturalmente, dei soprusi a cui Fleck – privo di trucco e costumi sgargianti – è sottoposto quotidianamente. Il protagonista, all'infuori delle mura del carcere, è una star, un idolo da seguire e osannare grazie alla capacità con cui ha risvegliato la coscienza (anche politica) di molti cittadini di Gotham. Ma all'interno del manicomio criminale, Arthur è una nullità: un prigioniero come tanti in attesa di subire un processo che dovrà decidere della sua condanna a morte. E per quanto l'ex clown appaia già di per sé “sconfitto”, una luce entra nella sua grigia vita: ovvero Harley Quinzel (Lady Gaga) insieme a cui darà voce ai dissidi interiori della sua anima, profondendosi di volta in volta in canti che rendono manifeste tanto le sue debolezze interne, quanto la volontà di trovare, nel sentimento d'amore che lo lega alla donna, la forza per prendere coscienza della sua stessa identità, nonché per individuare la formula con cui lenire i dolori delle ferite che lo stanno soffocando.
È chiaro che ogni discorso su Joker: Folie à Deux, soprattutto da parte di coloro che non accetteranno di buon grado la scelta qui perseguita dall'opera, ruoterà attorno all'elemento musicale del film. Ma a pensarci bene, sembra essere proprio questo l'obiettivo di Todd Phillips, e per estensione del film tout court. Perché è nella dimensione del musical, forse la cornice di genere più incline a declinare l'incursione del sogno negli spazi della realtà, che questo sequel ramifica tutte le sue istanze e idee, per mettere in moto i processi di trasformazione (o di involuzione?) a cui andrà tragicamente incontro Arthur Fleck. Le (molte) canzoni presenti nei vari segmenti del film, per buona parte interpretate a cappella o con un leggero sottofondo sinfonico tale da donar loro una connotazione naturalistica, permettono organicamente al cineasta e ai suoi due encomiabili attori di rendere materiche le fantasie dei protagonisti, dal sapore – come vedremo – deliberatamente tragico, proprio perché fittizie e quindi riconducibili a qualcosa di inesistente. E ciò che rende così congrue - quando non addirittura necessarie – le grammatiche del musical è la radicalità con cui il regista le sovrappone allo stato confusionale in cui versa Arthur: arrivato ora a comprendere la reale natura delle sue fantasie di riscatto, destinate a collassare sotto il segno della più bruta e sconfortante realtà. Che poi è quella che tutti noi conosciamo, e che lo stesso protagonista ha cercato di evitare sin dall'inizio del precedente film: l'assoluta tragicità della sua condizione di uomo misero, sofferente, lontano anni luce dall'arroganza e dall'autocompiacimento del suo clownesco alter ego.
Ecco allora che in Joker: Folie à Deux non è più percepibile quella carica pulsionale e anarchica che ha attraversato ogni singola inquadratura dell'epilogo del film del 2019. Perché questo sequel, da qualunque prospettiva lo si osservi, racconta la storia di un uomo in lotta con sé stesso, incapace di rifugiarsi nel calore e nella sicurezza delle sue fantasie, alle quali non arriverà più a credere. Il “sogno” del Joker non ha motivo di esistere all'interno delle mura del carcere o nelle aule del tribunale, e agli occhi di Arthur si palesa clamorosamente il ritratto di quel che egli è e ciò che non potrà mai veramente essere. E non è un caso che il film, una volta messo in moto il percorso di auto-distruzione (psichica, emotiva, e forse anche fisica?) del protagonista, getti luce su una verità assoluta, ovvero la fallacia del suo alter ego. Una conclusione da cui l'opera trae tutto il senso tragico che permea ogni immagine del racconto, calato in un'atmosfera talmente lugubre e nefasta da suggerire, già di per sé, il destino drammatico verso cui volgerà l'antieroe. Perché Arthur sa bene che quella del mefistofelico pagliaccio è solo una facciata opportunamente eretta per confinare, negli angoli bui della coscienza, le crisi che lo stanno attanagliando: abbatterla, significa di fatto indossare la maschera che più lo disturba, vale a dire sé stesso.