Corpus christi
Jan Komasa, al suo terzo lungometraggio di finzione, si ispira a una storia vera e costruisce un protagonista intenso, problematico, diviso. Film candidato come Miglior film internazionale agli Oscar 2020.
Alla base c’è una storia vera. Come spesso accade. Ma, in questo caso, è una storia vera più finta di tante altre e raccontata per la prima volta dal giornalista Mateusz Pacewicz, che sarebbe diventato poi lo sceneggiatore di Corpus Christi (Boże Ciało), terzo lungometraggio fiction di Jan Komasa (Sala samobójców, Miasto 44), presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 2019 e candidato tra i titoli di Miglior film internazionale agli ultimi Oscar.
Alcuni anni fa un giovane arrivò in un piccolo villaggio della Polonia e per pochi mesi si finse prete. Messe, riti, sacramenti. Una comunità di fedeli che lo amava, prima di scoprire quella verità che sarebbe arrivata sino alla Santa Sede. Ci credeva davvero, quel ragazzo, ma era comunque un impostore. In Corpus Christi Daniel (Bartosz Bielenia) esce da un istituto di pena per buona condotta grazie alla vicinanza del sacerdote del centro. Nessun seminario lo accoglierebbe visti i suoi trascorsi. Deve raggiungere una fabbrica che lavora il legno in una parte lontana del Paese. Arriva nella cittadina, ma si ferma in chiesa. Ha un abito talare con sé nel suo zaino, dice a una ragazza di essere un prete. Verrà creduto e si ritroverà – inizialmente spiazzato e incredulo e poi sempre più coinvolto – a dover sostituire momentaneamente il vecchio parroco costretto a curarsi.
Il regista, classe 1981, sintetizza bene il senso di Corpus Christi: «Il protagonista del film sente una vocazione ma non sa che uso farne a causa dei limiti imposti dalle istituzioni. È un tragico conflitto nel quale si scontrano due distinti drammi: quello di un individuo asociale e quello di una comunità sconvolta che nasconde un oscuro segreto». Perché è un film doppio quello di Komasa, lo è sottilmente e lo è in eccesso, tra programmaticità e dispersione. Contrappone e unisce, costruisce intorno e internamente alla vocazione confusa di Daniel, alla quasi ininterpretabile sostanza profonda e caotica di questo personaggio, al gioco drammatico tra la verità e la finzione, tra la tragedia e la perdita, tra il conflitto e la redenzione, tra il dolore e il perdono, un destino individuale e uno collettivo, una narrazione compatta, intelligente, precisa, ma anche mobile, lieve, stratificata, cangiante. È un film doppio, perché si può vedere negli occhi del protagonista – e Bartosz Bielenia lavora quasi “ergonomicamente” sui suoi occhi, impenetrabili, minacciosi, violenti, umidi, folli, commossi, sperduti, luminosi, teneri, innamorati – e sugli occhi che lo guardano, dall’ammirazione, alla diffidenza, alla speranza, alla disperazione, all’amore, al desiderio. Doppio perché è nella finzione, in un confessionale, che scopriamo i crimini, le colpe e i muti fantasmi del protagonista anche se non è lui a raccontarli, ma sta dall’altre parte. Doppio perché un impostore riporta all’unica verità possibile, fragile ma autentica, una comunità caduta in un abisso di dolore e odio. Doppio, perché il suo inizio e la sua fine insieme “tradiscono” e allo stesso tempo “elevano” Daniel, senza mai giudicarlo, piuttosto nel finale radicalizzando la sua definitiva alterità, la sua disappartenenza, in una sospensione dicotomica, liminale, in una dimensione reale e irreale, in uno spazio e in un tempo tangibili e sfumati, fisici e irriconoscibili.
Komasa, figlio di gente di cinema e televisione, di famiglia cattolica che ha conosciuto il regime comunista, non fa un film sul sacro. Daniel guarda Cristo in croce, canta ai fedeli con l’emozione di un bambino, mette a terra un uomo con una testata, si droga, con lui pregare diventa esercizio mentale e fisico per liberarsi, ritrovare la pace; il giovane dà alla comunità parole e significati, un senso, che quelle persone non avevano mai conosciuto (e vale la pena di ricordare che, sul set e anche prima, preziosa è stata la consulenza di reali sacerdoti, come hanno spiegato regista e protagonista). Mente, Daniel, ma dice e sente cose vere. Non è un film sul sacro, ma su una fuga che in realtà è una ricerca, su un assurdo che diventa imprevisto compimento. Su una fede straordinariamente inspiegabile. Umana troppo umana.