Il favoloso mondo di Amèlie Poulain
Vent'anni di Amèlie Poulain sul grande e piccolo schermo
“...Favola moderna, costruito su elementi non certo nuovi ... ma raccontato con una leggerezza e una grazia contagiose, un film che ha saputo intercettare i bisogni (più che le aspettative) del pubblico...”, così chiosato dal Dizionario Mereghetti, Il favoloso mondo di Amèlie Poulain di J.P. Jeunet, torna sul grande schermo vent'anni dopo la prima francese, il 25 Aprile 2001 (in Italia, Gennaio 2002) subito consacrato cult per l’enorme successo di pubblico e botteghino. E se i bisogni dello spettatore cinematografico erano plausibilmente quelli che ancora oggi sono e saranno, ovvero la catarsi, che nella mitopoiesi si sprigiona dalla parabola archetipica del viaggio interiore dell’eroe/eroina, proprio attraverso la capacità tutta umana di intessere nella realtà la fantasia creatrice, senza dubbio molto più concrete e lungimiranti tornano le parole espresse da Fabio Ferzetti sul Il Messaggero del 25 Gennaio 2002: “.. Jeunet questa Parigi la riprende dal vero, come ai tempi della Nouvelle Vague, ma poi corregge tutto al computer, ripulendo i muri dai graffiti e le strade dalle auto in divieto di sosta. Qualcuno lo troverà sacrilego. Ma è il soggetto stesso di 'Amelie'. L'amore ai tempi del computer. L'amore che non si trova ma si inventa, si assembla, si costruisce. Infondo, basta solo un po' di taglia e incolla".
Parole quanto mai profetiche se pensiamo ad oggi, all’amore ai tempi della compulsività dei social, delle fake e deepfake, del revenge porn. Non si osa immaginare le scorciatoie virtuali, le astrazioni e gli escamotage architettati dalla mente ipertrofica di Amèlie Poulain con uno smartphone alla mano e dietro Facebook, Instagram e Tik Tok.Il passo sarebbe stato davvero breve, considerato che già lo schermo televisivo costituiva per Amèlie lo specchio delle brame e delle rivalse, che costellano la trama (colpevolizzata dal vicino di aver causato un incidente stradale, Amèlie-bambina viene assalita da un senso di colpa cosmico, mentre guarda in TV una serie di catastrofi mondiali, della cui falsità si vendicherà contro il vicino stesso; smascherata dall’anziano Dufayel di aver trascorso l’infanzia in totale solitudine, Amèlie-adulta vaneggia un reportage televisivo sulla sua vita da martire consacrata al prossimo, iniziando dal padre; accusata ancora di essere una codarda, Amèlie riflette sotto forma di cinegiornale sovietico sulla ingerenza intollerabile di questo vecchio-mentore che, non a caso attraverso una videoregistrazione clandestina, la incalzerà a scontrarsi con la vita reale).
In questo Maggio 2021 di stentate riaperture dei luoghi di spettacolo, ancora sottoposte a ferree misure di prevenzione Covid-19, questo ritorno all’irriducibile magia della sala, pur nella società dei piccoli schermi e streaming per necessità virtù, attraverso una icona della “ favola” sur-reale, per quanto calata in riferimenti geo-temporali precisi, si investe di un immenso valore simbolico, una sorta di “e quindi uscimmo a riveder le stelle”... a sognare in grande. Per questo non è semplice eludere la tentazione di farne una celebrazione incondizionata, trattandosi di un’opera-personaggia che ha segnato indiscutibilmente l’immaginario collettivo (che la si ami o la si odi, non è possibile liberarsene né ignorarla). Tanto più inutile perché, se su un testo filmico è sempre possibile col senno di poi operare un’analisi lucida o una operazione di riattualizzazione, non è certo possibile spiegare il persistere dell’alchimia tra l‘opera ed ogni suo fruitore-amante nell’estrema soggettività e irrazionalità di un simile meccanismo emozionale e selettivo. L’innamoramento non si spiega.
Ad Amèlie Poulain, nel corso degli anni sono state dedicate tesi di laurea tanto di studi cinematografici, quanto di psicologia. Amèlie Poulain è per stessa ammissione di Jeunet, l’antropomorfizzazione di tutto il suo immaginario creativo, così come secondo alcune interpretazioni del film, tutti i comprimari di Amèlie non sarebbero altro che le personificazioni delle sue ombre interiori da affrontare e riconciliare (la perdita della madre, l’infantilismo, la presunta a-sessualità ecc...) per potersi finalmente dare Una nel gioco di Alter Ego che è l’amore di coppia. Possiamo dire lo stesso di altre "personagge" cinematografiche, altrettanto epocali per la storia del cinema e icone generazionali contraddittorie, ma intramontabili ( tipo Rossella O’Hara, Holly Golightly) da cui Amèlie senz’altro discende, quanto alla presunzione d’essere demiurga del caso e con cui condivide la montagna di fandonie, sotto cui giace un'apparente incolmabile vuoto relazionale, nonché il conclusivo pianto liberatorio? Ma questi sono altri anniversari.
Lungo preambolo obbligato a parte, dunque, ecco l’occasione di recuperare e puntualizzare alcune delle coordinate fondamentali che dopo vent'anni ancora sorreggono la validità narrativa e linguistica del film più noto di Jean-Pierre Jeunet. Nel Marzo 2002, sul n. 412 della rivista Cineforum, Matteo Bittanti argomentava in modo a dir poco esaustivo come quest'ultimo universo extra-diegetico messo appunto da Jeunet, rappresentasse in modo esemplare lo stato del processo di “rimediazione dei media”, che a quel tempo andava inaugurando il cosidetto “digitale magico”, facendo ponte con un altro kolossal immaginifico, Moulin rouge di Baz Luhrmann dello stesso 2001. Con buona probabilità, proprio esposizioni d’approfondimento di tale portata hanno contribuito a tracciare anche il solco pedagogico in cui Il favoloso mondo di Amèlie è stato inserito sin dalle scuole superiori di secondo grado. A solo titolo d’esempio e restando in Italia, si pensi al lavoro didattico del Liceo Artistico Toschi di Parma tradotto nel 2012 in un prodotto editoriale (libro + due DVD) Le nuove mappe del cinema. l favoloso mondo di Amélie e i media vecchi e nuovi, dove la scansione episodica della trama accompagna gli studenti nella contaminazione multidisciplinare dei mezzi d’espressione figurativa, audiovisiva e virtuale. Volendo dislocare il discorso e arrivare sino ad oggi, non si può evitare di citare uno dei più noti manuali di studio in uso tra ristampe e sito web, "Corso di linguaggio e audiovisivo multimediale” (M. Corsi – Hoepli Editore) che tra gli esercizi di verifica di abilità e competenze del capitolo sul montaggio, propone la seguente traccia: “...descrivi quel che ti piace e quel che non ti piace, con lo stile in cui Il favoloso mondo di Amèlie descrive i genitori. Dunque tono ironico, montaggio vivace. Ad ogni affermazione dovrebbe corrispondere una inquadratura. Registra la voce fuori campo con un testo in terza persona”. Chiusa la digressione pedagogica, ciò che più risalta alla mente è che oggi nel 2021, non occorre affatto essere uno studente di indirizzo cinematografico, per rincrociare, ancora, anche casualmente questo esercizio stilistico coniato da Jeunet, ma basta beccare in TV l’ultima campagna pubblicitaria del Mulino Bianco, firmata da Gabriele Mainetti, che in una sorta di scatola cinese di citazioni cinefile, sulle note della celebre My favourite things, ricalca la formula della galleria di persone comuni, di cui si elenca in terza persona il "piace/non piace" (annoverando, senza filtro, i piccoli piaceri di dare una forma alle nuvole, di affondare la mano in un sacco di legumi e via dicendo, pescando dal mondo-Poulain...).
Il favoloso mondo di Amèlie Poulain e le sue celebri note, dunque, il successo planetario di Yann Tiersen. Anche l’omonima colonna musicale del film (stra-abusata soprattutto come accompagnamento di servizi televisivi dai disparati contenuti di genere info-tainment) è entrata solo di recente nell’icastica rielaborazione degli spot. Lo spot Citroen C3 Aircross, infatti, recupera la composizione Valse d’Amèlie e pur mettendo in scena il contrasto tra la vita quotidiana e la forza dei sogni, ribalta il plot narrativo originale del legame anaffettivo tra padre e figlia, regalando immediatamente allo spettatore il sollievo di quell’abbraccio tanto agognato e temuto dall’ Amèlie-bambina. Va detto dunque, che se l’impatto nell’immaginario collettivo può affievolirsi nel dato generazionale (qualcuno della cosiddetta Generazione Z ha mai fatto l’ispezione delle mattonelle scomposte di una vecchia casa in affitto, nell’ipotesi di rinvenirvi il tesoro nascosto di una infanzia dimenticata?) si deve ancora dar atto che l’eredità estetica e stilistica del film vada ben oltre l’essere un caposaldo di citazionismo meta-cinematografico e post moderno, e perpetui il merito di aver coniato e trasmesso topoi narrativi ancora tutti da giocare nella produzione audiovisiva contemporanea.