Quando eravamo fratelli
Il documentarista Jeremiah Zagar firma il suo primo lungometraggio di finzione con un racconto genuino sull'infanzia, tratto dal romanzo d'esordio di Justin Torres.
«Un gran día dejaré este mundo, yo volaré. A una tierra do estaré seguro, yo volaré».
Inizia così, Quando eravamo fratelli, primo film di finzione del documentarista filadelfiese Jeremiah Zagar, basato sull’apprezzato, omonimo esordio letterario di Justin Torres: con la voce di un bambino che canticchia in spagnolo I’ll fly away, uno degli inni più celebri del gospel americano (per rimanere in ambito cinematografico lo si può ascoltare, per esempio, nella versione bluegrass delle Kossoy Sisters in Fratello, dove sei? dei Coen). Una canzone che Albert Brumley, prolifico autore di musica cristiana, aveva sentito il bisogno di tradurre in chiave religiosa mentre raccoglieva cotone per la sua famiglia, partendo in realtà da una delle ballate laiche più suonate degli anni ’20, The Prisoner’s Song, chiaramente incentrata, come dice il titolo stesso, sul tema della prigionia e della brama di libertà.
Volare via in un altrove dove sentirsi finalmente al sicuro, in un paradiso che sia, al di là di qualsivoglia connotazione spirituale, anzitutto privo di reclusione, costrizione e dolore. Questo è ciò che desidera, più di ogni altra cosa al mondo, Jonah, il più piccolo e fragile dei tre “animali” che costituiscono il “we” del titolo originale (We the animals), strepitante trio di esserini esuberanti, per metà italiani e per l’altra portoricani, capaci di diventare – quando l’amore fraterno riesce a farne un tutt’uno – una sorta di creatura sovraumana; animale, appunto, nel senso più pieno del termine, pura energia vitale, pre-culturale, pre-politica, pre-civile.
Sono figli della natura, questi ragazzi, più che dell’educazione famigliare o sociale. Che infatti latita, fino quasi a scomparire del tutto, tra le crepe di una famiglia della working class inghiottita da massacranti turni di lavoro, dalle imprevedibili esternazioni di un padre tanto affettuoso quanto impulsivo e violento, dall’impotenza di una madre risucchiata nella depressione d’una vita difficile. Jonah, Manny e Joel attraversano il confine ombroso tra infanzia e adolescenza nell’apparente assenza delle istituzioni: non c’è scuola – e non si capisce bene per quale motivo – ad aiutare i genitori nel ruolo pedagogico, non ci sono assistenti sociali a chiederne conto, né forze dell’ordine ad investigare sulle sassaiole che i tre enfants terribles (o meglio i due più Jonah) destinano alle auto in transito, lontano da casa.
Fatte salve le considerevoli divergenze in termini paesaggistici, le condizioni – naturali, sociali, famigliari – in cui vivono i tre bambini non sono molto diverse da quelle offerte dal bayou alla bambina protagonista di Re della terra selvaggia (altro film girato, come Quando eravamo fratelli, in 16mm, molto apprezzato al Sundance Film Festival, dove entrambe le opere sono state premiate). Oppure da quelle che il villaggio di pescatori islandesi di Hjartasteinn destina a due preadolescenti alle prese con un coming of age che coincide, come nel libro di Torres e nel film di Zagar, con la scoperta della propria omosessualità.
O, ancora, da quelle delle aree minerarie dello Yorkshire in Kes, l’insuperabile affresco (pre)adolescenziale di Ken Loach, il cui protagonista Billy condivide con Jonah la fascinazione per il volo, incarnata dal gheppio (kestrel, il “Kes” del titolo) con cui cerca di evadere da una realtà fatta di miseria e amarezze. Film, quest’ultimo, che ha certamente influito, in modo evidente soprattutto nella parte finale, sul lavoro di Zagar.
Si può dire che oltre a vivere nella natura biologicamente o ecologicamente intesa, nell’ambiente naturale, insomma, che in questo caso è quello dell’America rurale, a basso reddito pro-capite, dell’Upstate New York, dalle parti del lago Oneida (Justin Torres, l’autore del libro, è cresciuto a Baldwinsville, mentre gran parte del film è stato girato ad Utica, sessanta miglia più a est), questi bambini vivano e crescano immersi tra forze etimologicamente “naturali”, plasmanti, generatrici. A stretto contatto con la violenza, in primis, che in Quando eravamo fratelli arriva, improvvisa, nel mezzo dell’amore instabile e volatile dei genitori, dello scherzo, del gioco infantile. E che si materializza nel labbro ferito della madre, nella fisicità paterna, nelle zanzare schiacciate con rabbia.
C’è una percussione continua in Quando eravamo fratelli, dita tamburellanti, vibrazioni musicali, schiaffi sonori che si abbattono sulla pelle nuda, sferzata. Come se la vita non potesse che progredire così, percorsa (s)e percossa, per oscillazioni che spezzano silenzi, equilibri, forme. Mentre Jonah oscilla tra introversione e apertura all’esterno, tra sensibilità interiore e insensibilità del mondo esteriore, le sue matite colorate lasciano sui fogli i segni grafici di quei moti. E persino i disegni sono in continuo movimento, in divenire, resi vivi dalle animazioni di Mark Samsonovich, per la verità forse troppo numerose e invadenti.
Sta qui la bravura di Zagar, nel lasciare la macchina da presa in balia di questi flussi di energia, di queste onde, prediligendo la camera a mano, il pedinamento dei corpi, i primi piani, l’irrefrenabile punto di vista dei piccoli, di Jonah in particolare. Lo stile registico, la fotografia di Zak Mulligan e l’utilizzo della pellicola in 16mm restituiscono così alle immagini un’immediatezza che richiama quella dei filmati casalinghi e una genuinità che, al netto di qualche trascurabile difetto, non può che farci propendere per una valutazione assolutamente positiva.